Impugnazione inviata alla PEC sbagliata: La Corte rimette la questione alle Sezioni Unite (Cass. Pen. Ord. n. 33741/25)
- Avvocato Del Giudice

- 16 ott
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Con l’ordinanza n. 33741 del 2025 la Prima Sezione della Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite una questione di grande rilievo sistematico nel quadro del processo penale telematico: se sia ammissibile un atto di impugnazione trasmesso via posta elettronica certificata (PEC) a un indirizzo non compreso nell’elenco ufficiale D.G.S.I.A. del 9 novembre 2020, ma comunque riferibile all’ufficio giudiziario competente, quando l’atto risulti ricevuto e preso in carico dalla cancelleria entro il termine previsto per il deposito.
Il caso concreto traeva origine da un’istanza di riesame depositata dal difensore dell’indagato avverso un’ordinanza cautelare applicativa degli arresti domiciliari per il reato di cui all’art. 416-bis c.p.
L’atto era stato inviato a una casella PEC dell’Ufficio del Tribunale di Palermo non compresa nel citato decreto D.G.S.I.A., ma comunque riconducibile allo stesso ufficio, ed era stato regolarmente ricevuto e protocollato.
Il Tribunale del riesame aveva tuttavia dichiarato inammissibile l’impugnazione ai sensi dell’art. 87-bis, co. 7, lett. c), d.lgs. 150/2022.
La disposizione in questione — introdotta dalla riforma Cartabia — prevede che l’impugnazione telematica sia inammissibile quando l’atto è trasmesso a un indirizzo di posta elettronica certificata non riferibile, secondo quanto indicato dal provvedimento del Direttore generale per i sistemi informativi automatizzati, all’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato.
Si tratta, dunque, di una causa di inammissibilità, apparentemente sottratta a qualsiasi valutazione discrezionale, e volta a garantire certezza e tracciabilità delle comunicazioni telematiche processuali.
Proprio l’assolutezza di tale formulazione ha però generato, nella prassi, un contrasto interpretativo sulla possibilità di sanare l’errore materiale nell’individuazione dell’indirizzo PEC.
La Prima Sezione, nel motivare la rimessione alle Sezioni Unite, ricostruisce con precisione il quadro delle decisioni precedenti, da cui emergono tre differenti configurazioni del problema e altrettante risposte interpretative.
Il primo scenario è quello più radicale: l’atto di impugnazione viene inviato alla PEC di un ufficio giudiziario diverso da quello competente.
In questa ipotesi la giurisprudenza si è mostrata compatta nel ritenere l’impugnazione inammissibile, non potendo il giudice superare il chiaro tenore letterale dell’art. 87-bis, comma 7, lett. c), d.lgs. 150/2022.
L’orientamento è così consolidato che in un recente caso (Sez. I, Arena, ord. 1 luglio 2025) è stata persino sollevata questione di legittimità costituzionale della norma per “eccesso di formalismo regolatorio”, nella parte in cui non consente di valorizzare il tempestivo arrivo dell’atto all’ufficio competente.
Più problematica è invece la seconda ipotesi — quella oggi sottoposta alle Sezioni Unite — in cui l’impugnazione è trasmessa a una PEC appartenente allo stesso ufficio giudiziario competente, ma non ricompresa nell’elenco ufficiale del D.G.S.I.A..
Qui la giurisprudenza si è divisa.
Una parte delle sezioni semplici ha adottato una linea rigidamente formalistica, ritenendo che la inammissibilità sia inevitabile in forza del dato testuale e della ratio di uniformità e sicurezza informatica che sorregge la norma (tra le altre, Martorano, 2024; Frizziero, 2025).
Un diverso indirizzo, più attento al profilo sostanziale del diritto di difesa, ha invece valorizzato il principio del favor impugnationis e quello del raggiungimento dello scopo, ritenendo che l’errore non determini inammissibilità quando l’atto sia comunque giunto tempestivamente alla cancelleria ed effettivamente “preso in carico” dall’ufficio competente (Sez. VI, C., 17 aprile 2025).
Questa interpretazione, ispirata ai principi enunciati dalle Sezioni Unite Bottari (2020/21), tenta di evitare che l’uso della tecnologia si traduca in un formalismo paralizzante.
Infine, vi è una terza ipotesi, apparentemente marginale ma assai frequente nella pratica: quella dell’invio a una “sotto-casella” di PEC comunque corretta e compresa nel decreto D.G.S.I.A., ma non specificamente destinata al deposito di atti penali.
In tali casi la giurisprudenza si mostra oscillante: alcune pronunce insistono sulla stretta osservanza del decreto ministeriale (Mazzeo, 2024), altre, in senso più pragmatico, riconoscono validità all’atto se la cancelleria lo ha ricevuto e trattato nei termini (Cutrignelli, 2023/24).
Le decisioni più rigorose ritengono che i principi affermati da S.U. Bottari — in tema di impugnazioni irritualmente presentate presso un ufficio fisicamente incompetente ma tempestivamente trasmesse a quello competente — non siano estensibili al deposito telematico, in quanto l’art. 87-bis contiene una causa specifica di inammissibilità e disciplina in modo tassativo le modalità di trasmissione.
Le pronunce più elastiche, al contrario, propongono una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata, invocando gli artt. 24 e 111 Cost., nonché la giurisprudenza CEDU (ad es. Trevisanato c. Italia, Garda Manibardo c. Spagna), secondo cui le regole formali non possono comprimere l’accesso effettivo alla giustizia oltre quanto necessario a garantire certezza e regolarità procedimentale.
Rilevato il contrasto, la Prima Sezione ha ritenuto necessario un intervento nomofilattico per stabilire se l’errore nell’indirizzo PEC possa essere sanato in presenza di effettiva e tempestiva ricezione da parte dell’ufficio competente, oppure se l’inammissibilità prevista dalla norma abbia carattere assoluto e inderogabile, anche quando lo scopo dell’atto sia stato raggiunto.
La questione, definita dalla Corte di notevole impatto sistemico, investe la compatibilità del formalismo telematico con i principi del giusto processo e del diritto di difesa, e potrebbe richiedere — in prospettiva — un intervento anche del legislatore o della Corte costituzionale.




