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Prescrizione e recidiva: l'approdo delle Sezioni Unite Schettino (pag. 4)



La massima

Cassazione penale sez. un., 25/10/2018, n.20808

La valorizzazione dei precedenti penali dell'imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee; in tal caso la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato.


SOMMARIO:


7. Il testo integrale della sentenza

RITENUTO IN FATTO

1. S.F. e D.R.A. sono stati giudicati dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Napoli responsabili, il primo, della detenzione di tabacco lavorato estero e, il secondo, della detenzione e del trasporto di tabacco lavorato estero, per entrambi aggravati dalla recidiva specifica reiterata ed infraquinquennale ex art. 99 c.p., e pertanto condannati, all'esito del rito abbreviato, lo S. alla pena di due anni e dieci mesi di reclusione ed Euro 3.433.334,00 di multa ed il D.R. alla pena di due anni e dieci mesi di reclusione ed Euro 1.500,00 di multa.

Con sentenza emessa il 9 febbraio 2017 la Corte d'appello di Napoli ha confermato siffatta pronuncia, in particolare condividendo il diniego di riconoscimento delle attenuanti generiche, in ragione dei plurimi, specifici e prossimi precedenti penali degli imputati, giudicati espressione di una più elevata capacità criminale.

2. Gli imputati hanno proposto congiunto ricorso per cassazione, a mezzo del comune difensore di fiducia, articolando un unico motivo con il quale vengono dedotti la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all'art. 157 c.p., per non aver la Corte d'appello rilevato l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione.

I ricorrenti osservano che le condanne sono intervenute per il reato di cui al D.P.R. n. 43 del 1973, art. 291 bis, comma 1, punito con la pena da 1 a 5 anni di reclusione e con la multa di 5 Euro per ogni grammo convenzionale di prodotto; avuto riguardo alla data di consumazione (19.1.2008), i reati si sarebbero quindi estinti per prescrizione alla data del 19.6.2016 (anni 7 e mesi 6), dunque in data antecedente non solo alla sentenza di appello ma allo stesso decreto di citazione per il giudizio di secondo grado, emesso in data 9.1.2017. Ai fini del computo del termine di prescrizione, secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 35738 del 2010, non rileverebbe la circostanza che sia stata loro contestata la recidiva specifica, reiterata ed infraquinquennale, poichè la stessa non era stata applicata dal primo giudice, con scelta condivisa dai giudici di appello.

3. La Seconda Sezione di questa Corte, assegnataria del procedimento, ritenuto il ricorso non inammissibile, ha ravvisato la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale sul tema della rilevanza della valorizzazione dei precedenti penali per motivare il diniego di riconoscimento delle attenuanti generiche ai fini del calcolo del tempo necessario alla prescrizione del reato, quando la recidiva contestata ed implicitamente riconosciuta non abbia determinato un aumento della pena, e ha rimesso la questione alle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 618 c.p.p., comma 1.

Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite è stato formulato nei seguenti termini:

"se la recidiva contestata e accertata nei confronti dell'imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell'imputato, rileva o meno ai fini del calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato".

La Sezione remittente ha osservato in proposito che, a fronte di decisioni secondo cui, quando il giudice abbia escluso, anche implicitamente, la circostanza aggravante della recidiva, non ritenendola in concreto espressione di una maggiore colpevolezza o pericolosità sociale dell'imputato, la predetta circostanza deve ritenersi ininfluente anche ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (da ultimo: Sez. 6, n. 54043 del 16/11/2017, S., Rv. 271714; in senso conforme: Sez. 3, n. 9834 del 17/11/2015 - dep. 2016, Cosentino, Rv. 266459; Sez. 2, n. 48293 del 26/11/2015, Carbone, Rv. 265382; Sez. 2, n. 2090 del 10/01/2012, Nigro, Rv. 251776; Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714), si registra, tuttavia, una posizione difforme in seno alla giurisprudenza di legittimità, la quale ritiene che la recidiva contestata e accertata nei confronti dell'imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell'imputato, rileva ai fini del calcolo dei tempo necessario ai fini della prescrizione del reato (così, Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, Briji, Rv. 270678, che, in motivazione, ha specificato che solo la recidiva contestata ma non valutata in alcun modo ai fini dell'applicazione del trattamento sanzionatorio, può ritenersi ininfluente sui termini prescrizionali; in senso conforme a tale ultimo orientamento, Sez. 5, n. 38287 del 06/04/2016, Politi, Rv. 267862; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, Romano, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/06/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, Locatelli, Rv. 241945).

4. Con decreto del 6 luglio 2018 il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell'art. 610 c.p.p., comma 2, l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, da trattarsi all'odierna udienza pubblica.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. In primo luogo deve ritenersi l'ammissibilità dei ricorsi, ancorchè incentrati su unico motivo, con il quale si lamenta che la Corte di Appello non abbia rilevato l'intervenuta prescrizione del reato, pur in assenza di denuncia dell'appellante nel corso del giudizio di secondo grado.

Come è noto, le Sezioni Unite hanno statuito che ove il ricorso per cassazione sia inammissibile è preclusa la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., e art. 609 c.p.p., comma 2, l'estinzione del reato per prescrizione. E ciò in quanto l'art. 129 c.p.p., non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità e non attribuisce al giudice dell'impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali; piuttosto esso enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015 - dep. 2016, Ricci, Rv. 266818).

In tale contesto le S.U. hanno anche precisato che non è ex se inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si deduce, pur con unico motivo, l'estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza d'appello, ma non eccepita dalla parte interessata nel grado di merito nè rilevata da quel giudice.

In questa ipotesi, hanno osservato le S.U., il ricorso non può ritenersi inammissibile e la causa di non punibilità erroneamente non dichiarata dal giudice di merito deve essere rilevata e dichiarata, in accoglimento del proposto motivo, in sede di legittimità. Ciò in quanto il dato positivo non consente di ritenere incensurabile, con il ricorso per cassazione, l'errore del giudice di appello che ha omesso di dichiarare la già intervenuta prescrizione del reato, pur se non eccepita dalla parte interessata in quel grado. Errore che si concreta nella inosservanza o nella erronea applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b).

2. Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite, risultando scandito attraverso proposizioni subordinate apparentemente di pari rilevanza, richiede un preliminare chiarimento. Nonostante si rimarchi che la recidiva è "solo implicitamente riconosciuta" e si ponga l'enfasi sulla mancata esplicazione dell'effetto diretto di essa, il denunciato contrasto non attiene agli effetti connessi al mancato aumento di pena, che pure sarebbe imposto da una recidiva riconosciuta, e neppure all'ammissibilità di una motivazione implicita quale giustificazione del riconoscimento della recidiva o alla derivabilità dell'effetto estintivo da una recidiva implicitamente riconosciuta.

L'analisi delle motivazioni che hanno animato il contrasto interpretativo evidenzia che la controversia verte sulla ammissibilità di un riconoscimento della recidiva che pretenda di emergere dalla mera evocazione dei precedenti penali come ragione del diniego delle attenuanti generiche. Quindi sulla rilevanza che legittimamente può assumere il giudizio di (dis) valore che, incentrato sui precedenti penali dell'imputato, è elaborato con riferimento alla richiesta di riconoscimento delle attenuanti generiche.

Ne è dimostrazione il fatto che non si pone in discussione la necessità che, per poter incidere sui termini di prescrizione, la recidiva debba essere ritenuta, ma si argomenta in ordine ai segni che ne attestano l'avvenuto riconoscimento, rintracciandoli nell'aver tenuto conto dei precedenti penali per escludere la concessione delle attenuanti generiche, giungendo poi a derubricare in mero errore il mancato aumento della pena (cfr. Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, Romano, Rv. 257298; Sez. 5, n. 38287 del 06/04/2016, Politi, Rv. 267862). In termini chiari si sostiene che "nella fattispecie, la recidiva non solo era stata contestata ma era stata anche positivamente ed esplicitamente accertata e il giudice del merito aveva solamente ritenuto, discrezionalmente, di non infliggere alcun aumento di pena a tale titolo, peraltro valorizzando specificamente i precedenti penali dell'imputato per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche" (Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, Briji, Rv. 270678).

In modo speculare Sez. 6, n. 54043 del 16/11/2017, S., Rv. 271714 ha affermato che "... mai può ritenersi che, attraverso il diniego delle circostanze attenuanti per effetto della esistenza dei precedenti penali, la recidiva può dirsi implicitamente riconosciuta dal giudice così rilevando, come circostanza aggravante speciale, ai fini del calcolo dei termini di prescrizione...", così escludendo che, in assenza di una qualche argomentazione sulla concreta attitudine dimostrativa dei precedenti penali dell'imputato ai fini del giudizio di pericolosità, valorizzati solo per negare le attenuanti generiche, e in assenza di un aumento di pena per la recidiva, potesse ritenersi che il giudice avesse ritenuto di riconoscere l'aggravante in parola.

Dal canto suo, Sez. 2, n. 48293 del 26/11/2015, Carbone, Rv. 265382 ha ritenuto che l'assenza di un aumento di pena riconducibile alla recidiva, pur contestata, sta ad indicare che questa non è stata ritenuta; e che la considerazione dei precedenti penali nel giudizio di diniego delle attenuanti generiche non contraddice tale conclusione per la diversità dei piani di valutazione, l'uno ancorato allo specifico fatto di reato per l'apprezzamento della capacità criminale dell'autore, l'altro ad un giudizio prognostico sulla probabilità di commissione di nuovi reati (integralmente adesiva Sez. 6, n. 16109 del 31/3/2016, Capacci; la non riducibilità ad unum dei giudizi è rimarcata anche da Sez. 6, n. 38780 del 17/06/2014, Morabito, Rv. 260460). Univocamente militanti per la medesima impostazione Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714; Sez. 2, n. 2090 del 10/01/2012, Nigro, Rv. 251776; Sez. 3, n. 9834 del 17/11/2015 - dep. 2016, Cosentino, Rv. 266459; Sez. 2, n. 46297 del 13/7/2016, D'Onofrio).

Si può quindi ribadire che le diverse tesi si confrontano sulla possibilità di ritenere riconosciuta la recidiva per il fatto che il giudice ha tenuto conto dei precedenti penali dell'imputato per negare le attenuanti generiche, valendo ciò come implicita affermazione di sussistenza dei costrutti della circostanza aggravante; risultando consequenziale la inserzione del mancato aumento della pena nella categoria dell'errore o invece del coerente corollario.

3. Così definito il tema del contrasto giurisprudenziale, occorre innanzitutto svolgere qualche considerazione sul rilievo che deve riconoscersi alla contestazione della recidiva. Infatti, in talune decisioni, invero non delle più recenti, il rilievo accordato alla contestazione condiziona le conclusioni cui si perviene. Accade quando si afferma che la recidiva contestata e non esclusa deve ritenersi sussistente e quindi produttiva di effetto (ad esempio, quello ostativo di cui all'art. 172 c.p., comma 7: Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, Locatelli, Rv. 241945). E' la medesima posizione espressa dal Procuratore Generale nell'odierna requisitoria, quando ha inteso rimarcare l'intangibilità di un giudicato formatosi per effetto di una contestazione non contraddetta dalla decisione di primo grado.

3.1. Prescindendo in questa sede dalla relazione corrente tra contestazione della recidiva e diritto di difesa dell'imputato, occorre porre a fuoco la circostanza che l'attribuzione di una valenza decisiva alla contestazione, tale da far ritenere consolidato il suo avallo da parte del giudice solo che questi non abbia preso esplicitamente una posizione negatoria, mette radici nella temperie normativa e culturale che attribuiva alla recidiva il valore di status personale - "indicato" dal certificato del casellario giudiziale e non bisognevole della mediazione valutativa del giudice -, dal quale conseguiva con automatismo indefettibile l'aumento della pena (salvo le ipotesi di cui all'art. 100 c.p.).

In ragione di tale presupposto si poteva affermare, ad esempio, che non è violato il divieto della reformatio in peius quando il giudice di appello, in mancanza del gravame del Pubblico Ministero, si limiti a rettificare la motivazione e non già il dispositivo della sentenza di primo grado, rilevando l'omesso calcolo della recidiva contestata e mai esclusa (cfr. Sez. 5, n. 1095 del 07/07/1967, Minale, Rv. 105546); o che i precedenti penali costituiscono un elemento cui necessariamente consegue un aumento di pena a titolo di recidiva (cfr. Sez. 2, n. 15 del 12/01/1968, Pedrini, Rv. 107812).

Sul piano degli oneri motivazionali l'impostazione si traduceva nel riconoscimento della necessità che il giudice motivasse le proprie determinazioni sul trattamento sanzionatorio solo in caso di recidiva facoltativa ex art. 100 c.p. (abrogato dal D.L. 11 aprile 1974, n. 99); e neppure in ogni caso ma solo quando avesse ritenuto di escludere l'aumento della pena (ex multis, Sez. 4, n. 1841 del 15/11/1968 - dep. 1969, Boncini, Rv. 110319).

Con la novella del 1974 la recidiva divenne facoltativa in ogni sua specie; tuttavia la giurisprudenza di legittimità elaborò posizioni non coincidenti quanto al campo di esercizio del potere discrezionale connesso al carattere facoltativo della circostanza.

Secondo l'orientamento prevalente (contrastato ad esempio da Sez. 5, n. 79 del 21/08/1975 - dep. 1976, Di Giorgio, Rv. 131754; Sez. 1, n. 4975 del 13/01/1976, Tosto, Rv. 136903; Sez. 1, n. 6127 del 31/01/1979, Lorrai, Rv. 142451), la nuova disciplina dava facoltà al giudice non di escludere la recidiva, bensì di non apportare gli aumenti di pena che da essa dovrebbero conseguire (Sez. 2, n. 10248 del 12/04/1983, Querzola, Rv. 161468; Sez. 3, n. 435 del 29/09/1978 - dep. 1979, Vinciguerra, Rv. 140816; Sez. U, n. 9148 del 17/04/1996, Zucca, Rv. 205543, in motivazione). Ragion per cui, si osservava, "il primo problema che il giudice deve porsi non è, quindi, di esclusione o meno della recidiva, bensì - ferma questa restando - di scelta circa l'opportunità o meno di aumentare la pena. Egli, infatti, non è più vincolato all'opinione preventiva ed astratta della maggiore capacità a delinquere e pericolosità del reo espresse dalla ricaduta nel reato, ma è tenuto a stabilire volta per volta se effettivamente la recidiva sia espressione d'insensibilità etica e di pericolosità e giustifichi, perciò, la maggiore punizione del reo; o se invece, per l'occasionalità della ricaduta, per i motivi che la determinarono, per il lungo intervallo di tempo tra il precedente reato ed il nuovo, per la diversità di indole delle varie manifestazioni delinquenziali, per la condotta in genere tenuta dal reo, quella insensibilità e quella pericolosità non siano riscontrabili" (Sez. 6, n. 3874 del 05/09/1974 - dep. 1975, Mele, Rv. 130148).

Ancora in tempi più recenti si è affermato che "... la nuova disciplina della recidiva, di cui alla L. 7 giugno 1974, n. 220, ha sancito soltanto la facoltatività dell'aumento di pena e non anche degli altri effetti penali connessi alla recidiva (...). Pertanto, è ius receptum che il giudice è vincolato ad applicare la recidiva, una volta accertato che sia stata correttamente contestata. Mentre, la discrezionalità riguarda solo la scelta di aumento o meno di pena, fermo restando che, in ogni caso, la recidiva ha gli altri effetti penali per essa stabiliti dalla legge.

Effetti che vanno dal divieto di misure previste dal diritto sostanziale a quelle previste dall'ordinamento giudiziario - quali la sospensione condizionale della pena, l'oblazione speciale, la liberazione condizionale, la riabilitazione, la prescrizione - e, infine, a quelle processuali, quale quella della preclusione della richiesta di pena ex art. 444 c.p.p., comma 1 bis. Altrettanto è diritto vivente che la recidiva rileva agli effetti penali solo in quanto sia stata ritenuta dal giudice del processo di cognizione dopo essere stata regolarmente contestata, attesa la sua natura di aggravante" (Sez. 6, n. 18302 del 27/02/2007, Ben Hadhria, Rv. 236426).

Corollario di un simile orientamento era che una volta contestata la recidiva, ove non motivatamente esclusa, non poteva considerarsi indice di un giudizio di insussistenza della stessa il mancato aumento della pena.

Se ne può dedurre che un consistente filone giurisprudenziale ha per lungo tempo inteso la recidiva come uno status personale, da ricavare dalla lettura del certificato giudiziale, e pertanto l'ha ritenuta obbligatoria quanto all'an, ove ricorrenti i necessari precedenti penali, e facoltativa nell'effetto diretto (ma non in quelli indiretti).

3.2. Si tratta, tuttavia, di un orientamento ormai abbandonato, poichè la riforma della recidiva recata dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, ha oggettivamente fatto da volano ad un'evoluzione della disciplina verso tutt'altra direzione. Evoluzione che prende le mosse dalla sentenza n. 192/2007 della Corte costituzionale (che dichiarò inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 69 c.p., comma 4, come sostituito dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 3), tra le cui righe può leggersi anche il rimprovero mosso ai giudici remittenti, per aver interpretato l'art. 99 c.p., comma 4, e quindi il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti concorrenti con la recidiva qualificata, muovendo da un riflesso antico, quello che conduceva a ritenere obbligato il riconoscimento della recidiva (reiterata, ma non solo) ove presenti pertinenti precedenti penali. La Corte costituzionale sollecitò quindi i giudici a valutare la diversa interpretazione emersa all'indomani della riforma, la quale segnalava come in forza del nuovo regime la recidiva reiterata fosse divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), ogni altra specie risultando ancora esito di un giudizio discrezionale.

I successivi interventi sono stati ricalcati su questa prima pronuncia (Corte Cost. n. 198 e n. 409 del 2007; n. 33, n. 90, n. 91, n. 193 e n. 257 del 2008; n. 171 del 2009), motrice del convergente indirizzo del giudice di legittimità, infine prevalso su quello di segno opposto, emerso anche a fronte della nuova disciplina.

Nel 2010 le Sezioni Unite qualificarono la recidiva come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, ribadirono che essa va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, perchè ciò è imposto dal principio del contraddittorio, ma rimarcarono che essa può non essere ritenuta configurabile dal giudice (a meno che non si tratti dell'ipotesi di recidiva reiterata prevista dall'art. 99 c.p., comma 5: previsione attinta dalla successiva dichiarazione di illegittimità costituzionale pronunciata con sentenza n. 185/2015). Nell'occasione le Sezioni Unite puntualizzarono che al giudice sta di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all'eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali (così Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247839).

Con un successivo intervento il massimo organo di nomofilachia descrisse definitivamente la totalità dello spazio coperto dall'onere motivazionale, puntualizzando che esso ricorre sia nell'ipotesi che la recidiva venga riconosciuta, sia nel caso che essa venga esclusa. Per Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, Marcianò, Rv. 251690, "sul giudice del merito incombe uno specifico dovere di motivazione sia quando ritiene sia quando esclude la rilevanza della recidiva", risultando tale dovere insito nei principi affermati nella sentenza n. 192/2007 della Corte costituzionale e in quella n. 35738/2010 delle Sezioni Unite.

Uno specifico riferimento all'esigenza che il giudice offra comunque una adeguata motivazione a supporto della propria valutazione discrezionale si rinviene anche in Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664 e nella più recente pronuncia Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016 Filosofi, Rv. 267044, là dove si precisa che proprio a tale tipo di valutazione discrezionale si correla uno specifico obbligo motivazionale del giudice.

L'orientamento così espresso ha trovato piena adesione anche nella giurisprudenza delle Sezioni semplici, proprio sulla considerazione per cui l'applicazione dell'aumento di pena per effetto della recidiva contestata attiene all'esercizio di un potere discrezionale del giudice che deve essere motivato (tra le altre, Sez. 6, n. 14550 del 15/03/2011, Bouzid Omar, Rv. 250039; Sez. Fer., n. 35526 del 19/08/2013, De Silvio, Rv. 25671; Sez. 6, n. 16244 del 27/2/2013, Nicotra, Rv. 256183; Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014 - dep. 2015, Gordyusheva, Rv. 263464; Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016 - dep. 2017, Del Chicca, Rv. 270419; e già in precedenza Sez. 2, n. 19557 del 19/03/2008, Buccheri, Rv. 240404; Sez. 5, n. 46452 del 21/10/2008, Tegzesiu, Rv. 242601; Sez. 4, n. 21523 del 23/04/2009, Pinna, Rv. 244010; Sez. 6, n. 42363 del 25/09/2009, Dommarco, Rv. 244855).

Sicchè, il superamento di ogni dubbio interpretativo circa il carattere e gli esatti termini della facoltatività della recidiva sortita dalla riforma del 2005, conseguito in virtù dei ripetuti interventi della Corte costituzionale e dei consonanti arresti delle Sezioni Unite, consente di affermare che nel vigente quadro normativo la recidiva è sempre facoltativa, che tale facoltatività investe il piano del suo riconoscimento, mentre risulta estranea al piano degli effetti, che si dispiegano o rimangono inespressi a seconda che l'aggravante sia ritenuta o esclusa, salvo riemergere allorquando essi devono essere modulati. Correlativamente, il giudice di merito, proprio perchè investito di un potere discrezionale, ha l'obbligo di spiegare la sua scelta fornendo adeguata motivazione in ordine ai due profili evidenziati di una "maggiore pericolosità del reo" e di una "più accentuata colpevolezza per il fatto", secondo la precisazione operata da S.U. Calibè; e, come già accennato, egli è chiamato a rendere motivazione in ordine non già all'an dell'effetto diretto, che consegue indefettibile in caso di riconoscimento della circostanza, ma in ordine alla sua entità, ovvero alla misura dell'aumento di pena e infine in ordine alla relazione con concorrenti circostanze eterogenee, quando non soggetta a vincolo normativo.

3.4. La lezione che deve trarsi da quanto sin qui esposto è che la contestazione della recidiva, onere dell'organo dell'accusa che intenda farne oggetto di decisione giurisdizionale, non consolida alcunchè, dovendosi fare riferimento alle statuizioni adottate dal giudice. La facoltatività della recidiva - ma l'utilizzo di una locuzione "tradizionale" non deve far credere che si compia un giudizio ontologicamente differente da quello che attiene alle altre circostanze del reato - si traduce in un obbligo motivazionale che ove inadempiuto apre all'ipotesi di una violazione di legge o di un vizio di motivazione. Di certo l'avvenuta contestazione non può prendere il posto di una statuizione mancante.

4. E' utile ai fini che qui occupano rimarcare quale sia la funzione assolta nel vigente sistema dalla facoltatività della recidiva. Essa si inscrive nel processo di conformazione del diritto penale nazionale alle funzioni che la Carta costituzionale assegna alla pena, tra le quali assume preminenza la finalità rieducativa, che implica "un costante "principio di proporzione" tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra" (Corte Cost. n. 341/1994).

Tale finalità viene puntualmente evocata nelle decisioni del Giudice delle leggi che hanno colto profili di illegittimità costituzionale nella disciplina in tema di recidiva.

Con la sentenza n. 183 del 2011, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 62-bis c.p. come modificato dalla legge "ex Cirielli" nella parte in cui non consentiva la concessione delle attenuanti generiche al recidivo reiterato, autore di delitti di cui all'art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, in considerazione della condotta susseguente al reato, si è affermato che siffatta preclusione si pone in insanabile contrasto con i principi fissati dall'art. 3 Cost., e art. 27 Cost., comma 3, sancendo una presunzione del tutto irragionevole e discriminatoria, nonchè contraria alla fondamentale finalità rieducativa della pena, in quanto ciecamente livellatrice delle diverse situazioni personali e dei diversi indici di risocializzazione inerenti i singoli condannati.

Anche in occasione della dichiarazione di illegittimità costituzionale per violazione del principio di proporzionalità della pena ex art. 27 Cost., comma 3, dell'art. 69 c.p., comma 4, nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza dell'attenuante prevista (all'epoca) dal citato D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, in materia di stupefacenti (sent. n. 251 del 2012 C. Cost.); della dichiarazione di illegittimità costituzionale dello stesso art. 69 c.p., comma 4, nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza di cui all'art. 648 c.p., comma 2, (sent. 105 del 2014) e del divieto di prevalenza dell'attenuante di cui all'art. 609 bis c.p., comma 3, sulla recidiva reiterata (sent. n. 106 del 2014); della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'automatismo relativo all'attenuante della collaborazione nell'ambito dei procedimenti per fatti di narcotraffico (sentenza n. 74 del 2016), i motivi di incostituzionalità sono stati individuati dalla Corte nel contrasto della presunzione assoluta di cui all'art. 69 c.p., comma 4, con i principi di uguaglianza e parità di trattamento, potendosi giungere a pene identiche per situazioni di rilevo penale diverso, con il principio della finalità rieducativa della pena, introducendosi un trattamento punitivo non individualizzato, nonchè con il principio di proporzionalità ed offensività, precludendo al giudice di rapportare la risposta sanzionatoria alla specifica gravità del fatto concreto.

Di particolare interesse, sotto il profilo in considerazione, è la sentenza n. 185 del 2015. I giudici costituzionali, nel dichiarare l'illegittimità dell'art. 99 c.p. comma 5, limitatamente alle parole "è obbligatorio e", con riferimento ai principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., e ai principi di proporzionalità e finalità rieducativa della pena, sanciti dall'art. 27 Cost., hanno sottolineato come il rigido automatismo sanzionatorio cui dava luogo la norma censurata collegando l'automatico e obbligatorio aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso, fosse del tutto privo di ragionevolezza, perchè "inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo". Quanto alla finalità rieducativa della pena, i giudici della Consulta, richiamando le prime pronunce sul tema (sent. n. 192 del 2007 e n. 183 del 2011) hanno affermato che la previsione di un obbligatorio aumento di pena, legato solamente al dato formale del titolo di reato, senza alcun accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso - in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati dall'art. 133 c.p. - sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo, viola anche l'art. 27 Cost., comma 3, che implica "un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra" (sentenze n. 341 del 1994 e n. 251 del 2012).

Da ultimo, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 69 c.p., comma 4, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 219, comma 3, (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sulla recidiva di cui all'art. 99 c.p., comma 4, la Corte costituzionale ha esplicitato la relazione che corre tra la necessità di individualizzazione della pena in funzione della rieducazione del condannato e il principio di offensività del fatto, in sostanza escludendo che i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo (sent. n. 205/2017).

Se ne può inferire che un uso non adeguatamente sorvegliato della recidiva minaccia la funzione rieducativa della pena proprio per il rischio di eccedere la pena proporzionata; per questo la motivazione deve restituire la valutazione che il giudice ha compiuto, in termini che comunichino il difficile e peculiare itinerario percorso, attraverso l'evidenziazione tanto degli elementi assunti ad indicatori quanto del traguardo dell'accertamento.

5. Ne consegue, una volta di più, la assoluta centralità della motivazione. La formulazione del quesito impone di chiarire che certamente può trattarsi anche di motivazione implicita.

5.1. La giurisprudenza di legittimità e la dottrina non dubitano, in generale, della legittimità del ricorso alla motivazione implicita, che si configura non già come idealtipo strutturalmente diverso e "scalare", fronteggiante quello della motivazione "esplicita", ma piuttosto come una particolare tecnica espositiva, caratterizzata dal proporre un'argomentazione, espressa a giustificazione di una determinata statuizione, in funzione di giustificazione anche di altra statuizione, sul presupposto di una stretta conseguenzialità logica o giuridica tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto valevole per la seconda. Come è stato acutamente osservato, nella motivazione implicita manca il testo grafico ma non il discorso argomentativo. Sicchè, per definizione, ove ricorre una motivazione implicita non può mai parlarsi di omessa motivazione; semmai può emergere un vizio di motivazione. Solo ove manchi il menzionato nesso di conseguenzialità logica e giuridica si determina una violazione di legge per l'inesistenza della motivazione (cfr. Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, Caliendo, Rv. 270080).

5.2. Il ricorso da parte del giudice alla motivazione implicita trova riscontro nella disciplina processuale, là dove essa impone che la sentenza contenga "una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto" su cui è fondata (art. 544 c.p.p., comma 1, e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e). La stessa previsione della regola della redazione della sentenza "subito" dopo la sua deliberazione depone per la legittimità del ricorso a modalità di argomentazione funzionali al rispetto della regola della subitaneità.

La motivazione implicita è altresì compatibile con il diritto ad un equo processo, come previsto dall'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, secondo la interpretazione datane dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo (cfr. Corte Edu, Quarta Sezione, 24.07.2015, Chipani ed altri c. Italia, nella quale si è ritenuto violato l'art. 6 della Convenzione per non essere stata resa motivazione del rigetto della questione pregiudiziale posta dai ricorrenti, ma solo per uno dei due profili segnalati, l'altro essendo stato oggetto di motivazione implicita).

In ragione dell'ammissibilità della motivazione implicita si ritiene che non sia censurabile in sede di legittimità una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, Caniello, Rv. 256340).

5.3. Con specifico riferimento agli istituti che più da presso vengono in considerazione in questa sede, giova rammentare l'insegnamento secondo il quale, in caso di diniego delle circostanze attenuanti generiche, la motivazione può implicitamente ricavarsi anche mediante il raffronto con le considerazioni poste a fondamento del loro avvenuto riconoscimento, riguardo ad altre posizioni esaminate nella stessa sentenza, quando gli elementi oggetto di apprezzamento siano gli stessi la cui mancanza ha assunto efficacia determinante nell'ambito di una valutazione generalmente negativa (Sez. 6, n. 14556 del 25/03/2011, Belluso, Rv. 249731).

Con precipuo riguardo alla recidiva, si afferma che il giudice può adempiere all'onere motivazionale anche implicitamente, ove la sentenza dia conto della ricorrenza di quei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, che sono alla base dell'aggravamento di pena disposto dal legislatore per effetto della circostanza di cui all'art. 99 c.p. (così, Sez. 6, n. 20271 del 27/04/2016, Duse, Rv. 267130); che l'esclusione della recidiva facoltativa contestata richiede uno specifico onere motivazionale da parte del giudice che, tuttavia, può essere adempiuto anche implicitamente ove si sia in concreto apprezzata l'insussistenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore (Sez. 3, n. 4135 del 12/12/2017 - dep. 2018, Alessio, Rv. 272040; così anche, Sez. 2, n. 39743 del 17/09/2015, Del Vento, Rv. 264533; Sez. 2, n. 40218 del 19/06/2012, Fatale, Rv. 254341).

5.4. L'esame della giurisprudenza di legittimità rende quindi evidente che non è in dubbio che il giudice possa argomentare secondo la tecnica della motivazione implicita; e che un simile principio trova riconoscimento pure con riferimento al giudizio in merito alla sussistenza o insussistenza della recidiva.

Ma va rimarcato che anche ove si faccia ricorso a tale particolare modalità argomentativa deve risultare che sia stata compiuta la specifica indagine imposta dalla contestazione della recidiva.

6. Occorre allora verificare se il menzionato nesso di consequenzialità ricorre tra la valorizzazione dei precedenti penali utilizzati quali fattori ostativi alle attenuanti generiche ed il giudizio che riconosce la recidiva.

6.1. Il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità chiarisce che ai fini dell'applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis c.p., il giudice deve riferirsi ai parametri di cui all'art. 133 c.p.; fermo restando che non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento (Sez. 2, n. 2285 del 11/10/2004 - dep. 2005, Alba, Rv. 230691; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269).

Si tratta di una interpretazione che, attraverso l'argomento a contrario, ha un preciso ancoraggio nell'art. 62 bis c.p., comma 2. Poichè la disposizione esclude che nei casi previsti dall'art. 99, comma 4, in relazione ai delitti previsti dall'art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), ove puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, assumano rilevanza i criteri previsti dall'art. 133, comma 1, n. 3, e comma 2 (ma, a seguito di Corte costituzionale, sent. del 10.6.2011, n. 183, può tenersi conto della condotta del reo susseguente al reato), fuori da tali casi valgono tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p..

Ciò non di meno, la prevalente giurisprudenza di questa Corte (consonante con parte della dottrina), ritiene che le attenuanti generiche hanno la funzione di adeguare la pena al caso concreto, permettendo la valorizzazione di connotati oggettivi o soggettivi non tipizzati ma che appaiono in grado di diminuire la meritevolezza e/o il bisogno di pena. Esse, quindi, presuppongono l'esistenza di elementi "positivi", intendendo per tali quelli che militano per una diminuzione della pena che risulterebbe dall'applicazione dell'art. 133 c.p.. Come è stato precisato, la ragion d'essere della previsione normativa recata dall'art. 62 bis c.p., è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile. Ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza (cfr. Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, Di Luca, Rv. 270694).

Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell'imputato volta all'ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (in tali termini già Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, Rv. 192381; Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace, Rv. 245241 e più di recente Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017, Lamin, Rv. 271315; Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, Di Luca, Rv. 270694).

La conciliazione tra affermazioni apparentemente così diverse si coglie sul piano applicativo, il quale conferma quel carattere pressochè onnicomprensivo dell'art. 133 c.p., da sempre segnalato dalla dottrina. Nel medesimo orizzonte si registra il ricorso alle attenuanti generiche per la mitigazione di trattamenti sanzionatori che diversamente risulterebbero sproporzionati, sia pure valorizzando profili avvertiti (non sempre a ragione) come estranei al catalogo dell'art. 133 c.p.; ma anche la cura nel filtrare eventuali spinte irrazionalistiche attraverso l'ancoraggio ai parametri legali della dosimetria sanzionatoria.

6.2. Orbene, i precedenti penali dei quali fa menzione l'art. 133 c.p., non sono del tutto coincidenti con quelli che contribuiscono a costituire la recidiva. A solo titolo esemplificativo si può considerare che nei primi rientrano anche le sentenze che concedono il perdono giudiziale, che invece non rilevano ai fini della recidiva (Sez. 5, n. 2655 del 16/10/2015 - dep. 2016, Halilovic, Rv. 265709); quelle che escludono la punibilità per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell'art. 131 bis c.p. (soggette ad iscrizione nel casellario giudiziale ai sensi del D.P.R. n. 313 del 2002, art. 3, lett. f, ma non valevoli ai fini della recidiva); le sentenze di condanna per reati colposi e per le contravvenzioni, che non possono concorrere a concretare la recidiva, pur quando formatesi prima dell'entrata in vigore della L. n. 251 del 2005, ma che possono essere prese in considerazione nella valutazione della gravità del fatto ostativa all'ammissione all'oblazione di cui all'art. 162 bis c.p., (Sez. 3, n. 29238 del 17/02/2017, Cavallero, Rv. 270147, in motivazione, ove si rammenta che quella gravità va apprezzata alla luce degli indici di cui all'art. 133 c.p.); le condanne per le quali si è prodotta l'estinzione di ogni effetto penale determinata dall'esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale, che invece non possono essere considerate agli effetti della recidiva (Sez. 3, n. 39550 del 04/07/2017, Mauri, Rv. 271342).

Allo stesso modo, mentre la riabilitazione non preclude la valutazione dei precedenti penali e giudiziari del riabilitato nell'apprezzamento del comportamento pregresso dell'imputato ai fini della determinazione della pena, ai sensi dell'art. 133 c.p. (cfr. Sez. 6, n. 16250 del 12/03/2013, Schirinzi, Rv. 256186), l'estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna conseguente alla riabilitazione preclude che della condanna si possa tener conto ai fini della recidiva, sino a quando non sia intervenuto il provvedimento di revoca della sentenza di riabilitazione (Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Pesce, Rv. 269042).

E' poi da rammentare che l'art. 133 c.p., comma 2, n. 2, considera anche i precedenti giudiziari, certamente irrilevanti ai fini del giudizio sulla recidiva.

6.3. Quel che ulteriormente rileva in questa sede è che, ancorandosi le attenuanti generiche a specifici elementi positivi in grado di condurre ad una riduzione della pena quale risultante dall'applicazione dell'art. 133 c.p., quegli elementi possono risultare contrastati e depotenziati da fattori di segno opposto; tra i quali legittimamente si collocano anche i precedenti penali del reo (ex multis, Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269).

Si vede bene, quindi, che allorquando il giudice fa ricorso ai precedenti penali per negare la meritevolezza dell'attenuazione della pena prevista dall'art. 62 bis c.p., egli opera una ricognizione che sfocia nel giudizio di insussistenza di elementi positivi o nel giudizio di dominanza di un fattore negativo sui concorrenti elementi positivi. Quando il fattore in parola è costituito dai precedenti penali del reo, la loro evocazione costituisce quindi un espediente retorico che esalta l'assenza di elementi positivi o la ricorrenza di un concreto elemento in grado di depotenziare quelli favorevoli pur accertati.

7. Del tutto diverso il giudizio in materia di recidiva.

7.1. In primo luogo ben più limitato è il senso della locuzione "precedenti penali" valevole per essa. Costituiscono precedenti penali valutabili ai fini della recidiva unicamente le condanne definitive e solo quelle che siano divenute tali prima della commissione del nuovo reato; a seconda della specie di recidiva, la condanna deve avere connotazioni particolari, quanto all'oggetto, al tempo, al numero. Ricorrono poi le ulteriori esclusioni già elencate al paragrafo.

7.2. In concreto, quindi, ben può accadere che i giudizi - quello concernente il (negato) riconoscimento delle attenuanti generiche e quello attinente al (positivo) riconoscimento della recidiva - non abbiano una base fattuale coincidente.

In caso diverso, quando la evocazione dei precedenti penali non si riduca alla già rammentata operazione retorica, l'uso del medesimo elemento, sia per escludere le attenuanti generiche che per ritenere la recidiva, dà luogo ad operazioni non sovrapponibili.

La dottrina è incline a cogliere una diversità prospettica delle valutazioni dei precedenti penali cui chiamano, rispettivamente, l'art. 133, e l'art. 99 c.p.. Mentre la prima considera i precedenti penali per la loro attitudine a dare indicazioni in merito alla personalità del reo, quale ulteriore elemento di conoscenza che, in una considerazione globale (che quindi può vederlo recessivo), permette di apprezzare la gravità del reato, la seconda assume il precedente penale per l'accertamento della consapevolezza del disvalore dell'azione da parte del reo e della pericolosità sociale dello stesso. Ha rilievo, quindi, la conoscenza e la conoscibilità della precedente condanna, dovendosi valutare la possibilità per il reo di trarre dal precedente vissuto giudiziario le motivazioni per determinarsi verso condotte lecite e la natura delle controspinte che lo hanno condotto a delinquere nuovamente (per una esemplificazione di tale giudizio Sez. 3, n. 30029 del 20.12.2017, dep. 2018, Scarano; Sez. 4, n. 25564 del 09.05.2017, Pansera). La giurisprudenza di legittimità, dal canto suo, ammette la polivalenza degli elementi indicati dall'art. 133 c.p. (cfr. Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015, Rechichi, Rv. 264378; Sez. 2, n. 933 del 11/10/2013 - dep. 2014, Debbiche Helmi, Rv. 258011).

Risulta poi evidente che il giudizio che riconosce la recidiva considera il precedente non come fattore ostativo bensì come fattore costitutivo, sia pure non esclusivo, essendo ancora necessario verificare la relazione che esso intrattiene con il nuovo reato.

La irriducibilità della recidiva alla titolarità di precedenti penali è tra le premesse fondamentali della rammentata giurisprudenza costituzionale formatasi nel tempo successivo all'entrata in vigore della L. n. 251 del 2005; essa importa la necessità che il giudice ne accerti i due requisiti costitutivi, verificando non solo l'esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche del presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo, da accertarsi discrezionalmente.

Si tratta di nozioni ormai acquisite al diritto vivente ma che meritano di essere ribadite, per la pratica difficoltà di farne corretta applicazione.

Ed invero, la complessità del giudizio è stata più volte ribadita anche dalla giurisprudenza di legittimità. Le Sezioni Unite Calibè hanno rimarcato l'obbligo del giudice di svolgere una verifica in concreto sulla reiterazione dell'illecito quale indice sintomatico di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell'eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali.

Nel ribadire il rifiuto di una recidiva intesa come status formale del soggetto le Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664 hanno nuovamente rimarcato che essa è produttiva di effetti unicamente se il giudice ne accerti i requisiti costitutivi, verificando non solo l'esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche procedendo al riscontro sostanziale della "più accentuata colpevolezza", per cui il soggetto risulta particolarmente riprovevole per essersi mostrato insensibile all'ammonimento derivante dalla precedente condanna, e della "maggior pericolosità", intesa come indice della sua inclinazione a delinquere; sicchè la recidiva richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo "status" e il fatto, che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all'epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale (nel medesimo senso anche Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044).

7.3. La complessità del giudizio è ulteriormente accentuata dal duplice fondamento della recidiva. Se la maggiore colpevolezza per il fatto impegna a rintracciare i segni del processo motivazionale sottostante il nuovo reato e a verificarne i nessi con il pregresso giudiziario del reo, per la maggiore pericolosità sociale si pongono in primo luogo problemi ricostruttivi, derivanti dalla contrarietà ai principi costituzionali di un'accezione che la faccia coincidere con una mera qualità della persona del reo e lasci prevalere esigenze di neutralizzazione. Pur così delimitato il campo delle possibili interpretazioni, la maggiore pericolosità può essere ricercata in connessione con il reato commesso (faticando a distinguersi, allora, dalla capacità a delinquere), oppure intesa come sinonimo di minore sensibilità al processo di rieducazione. In effetti, gran parte degli effetti indiretti della recidiva vengono considerati espressione di una valutazione legislativa ispirata dalla ritenuta maggiore pericolosità sociale.

Il fattore di crisi è rappresentato dalla concentrazione in un solo giudizio, quello del giudice della cognizione, di valutazioni che guardano in direzioni diverse: la pena proporzionata alla gravità del fatto, la efficacia del concreto trattamento in una prospettiva special - preventiva.

Le soluzioni non sono nella disponibilità della giurisdizione ordinaria. Tuttavia a questa compete di tener presente, perchè tal è il dato normativo, la circostanza che dalla recidiva conseguono tanto effetti diretti che effetti indiretti; in ciò una forte caratterizzazione di questa particolare circostanza del reato. Dalla quale devono trarsi le conseguenze che si esporranno più avanti.

7.4. Per quanto complesso il compito che incombe sul giudice chiamato ad accertare la fondatezza della contestazione della recidiva, una volta superata la vetusta concezione dello status - specie quando si consideri con realismo la struttura del processo penale - non sono ammissibili motivazioni di puro stile, che non espongano i dati fattuali presi in considerazione, i criteri utilizzati per valutarli, un coerente giudizio circa la maggiore rimproverabilità del reo per non essersi fatto motivare dalle precedenti condanne, come pure avrebbe dovuto fare.

Nè può essere dimenticata la rilevantissima incidenza che la recidiva assume sul piano sanzionatorio e non solo. La consapevolezza di tali rigorosi effetti e del concorso della recidiva medesima nella necessaria opera di individualizzazione della pena deve responsabilizzare il giudice ed indurlo al massimo scrupolo nell'accertamento degli indici del presupposto sostanziale, sulla scorta di quanto le parti, assolvendo ai rispettivi oneri probatori, conferiscono al giudizio.

Nell'accertamento della fondatezza della contestazione della recidiva il giudice deve essere consapevole della necessità di sorvegliare che non si determini una indebita valorizzazione delle qualità della persona del reo. L'ormai consueto richiamo all'accertamento della maggiore colpevolezza per il fatto e della maggiore pericolosità sociale del reo non può banalizzare il giudizio e far dimenticare che, in una prospettiva costituzionalmente orientata, esse non possono mai condurre a determinare una misura della pena che ecceda quella proporzionata alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto. Come ribadito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 205/2017, "la recidiva reiterata riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell'offensività della fattispecie base potrebbe risultare neutralizzata" da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità (sentenza n. 251 del 2012)".

8. La parziale diversità della nozione di "precedente penale"; l'insufficienza della sola presenza di precedenti penali a sostenere il giudizio sulla recidiva; il diverso modo in cui essi vengono in considerazione nel giudizio che nega le attenuanti generiche; la differente proiezione teleologica delle due valutazioni in comparazione rendono evidente che non può ravvisarsi alcun nesso di conseguenzialità logica e giuridica tra il diniego di riconoscimento della attenuanti generiche giustificato dalla presenza di precedenti penali e una statuizione di riconoscimento della recidiva.

Ne consegue che non è fondato attribuire ad un mero errore il mancato aumento della pena; va quindi respinta la diversa affermazione contenuta in Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, Briji, Rv. 270678; Sez. 5, n. 38287 del 6/4/2016, Politi, Rv. 267862; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, Romano, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/6/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/6/2008, Locatelli, Rv. 241945.

Ben diversamente, deve ritenersi che il mancato aumento di pena a titolo di recidiva costituisce indizio ulteriore del fatto che la circostanza aggravante non è stata riconosciuta.

9. Occorre soffermarsi brevemente su quest'ulteriore aspetto della questione proposta dalla Sezione remittente, che investe il piano della relazione tra il riconoscimento della recidiva e i suoi effetti.

Si è già rammentato che queste Sezioni Unite hanno statuito che all'esito dell'accertamento al quale dà via la contestazione della recidiva il giudice può negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non irrogando il relativo aumento della sanzione. Mentre, ove la verifica effettuata si concluda nel senso del concreto rilievo della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo, la circostanza aggravante opera necessariamente e determina tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio e sugli ulteriori effetti commisurativi. Si dovranno, allora, trarre dal giudizio tutti gli effetti, diretti ed indiretti, che la legge assegna alla recidiva.

Nel fissare tale insegnamento le Sezioni Unite Calibè precisarono che in tale ipotesi la recidiva deve intendersi, oltre che "accertata" nei suoi presupposti (sulla base dell'esame del certificato del casellario), "ritenuta" dal giudice ed "applicata", determinando essa l'effetto tipico di aggravamento della pena: e ciò anche quando semplicemente svolga la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l'effetto alleviatore di una circostanza attenuante.

Inoltre, abbandonò definitivamente la tesi della "facoltatività bifasica" della recidiva, per la quale è consentito al giudice di elidere l'effetto primario dell'aggravamento della pena mentre sono obbligatori gli ulteriori effetti penali della circostanza attinenti al momento commisurativo della sanzione.

Anche in Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664, considerando il tema dalla prospettiva del computo dei termini prescrizionali del reato, si è affermato che, mentre prima della sentenza di merito la più severa disciplina dei tempi di estinzione (art. 157 c.p., comma 2) opera sulla base della mera contestazione della recidiva, da considerare circostanza aggravante ad effetto speciale (cfr. Sez. 5, n. 35852 del 07/06/2010, Di Canio, Rv. 248502), una volta intervenuta la decisione che non abbia ravvisato una relazione qualificata fra i precedenti dell'imputato e il fatto a lui addebitato, la circostanza perde il suo rilievo ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714; Sez. 2, n. 18595 dell'08/04/2009, Pancaglio, Rv. 244158).

Con la sentenza Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044, le Sezioni unite hanno esaminato la questione relativa alla individuazione del corretto significato del verbo "applicare" utilizzato dall'art. 81 c.p., comma 4, verificando quando la recidiva possa dirsi "applicata" dal giudice. Richiamando quanto già messo in evidenza da altra e più risalente pronuncia delle stesse Sezioni unite, la Corte ha dunque osservato che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all'art. 69 c.p., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare. Ad avviso delle Sezioni Unite, all'atto del giudizio di comparazione, l'azione dell'applicare la recidiva deve ritenersi già esaurita, perchè altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario: la recidiva ha comunque esplicato i suoi effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali, però, la recidiva avrebbe comportato l'aumento di pena. Le ragioni fondanti la conclusione raggiunta vengono altresì individuate dalle Sezioni Unite nella elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi anche in relazione ai rapporti tra recidiva ed altri istituti, là dove si è ritenuto che il giudizio di bilanciamento con altre circostanze concorrenti non determini conseguenze neutralizzanti degli ulteriori effetti della recidiva. Così proprio in tema di prescrizione, dove si è affermato che la recidiva reiterata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente (Sez. 6, n. 39849 del 16/09/2015, Palombella, Rv. 264483; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013 Romano, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/06/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, Locatelli, Rv. 241945). Si parla in simili casi di sostanziale "applicazione" della recidiva, rilevando che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplichi il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all'art. 69 c.p., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare (Sez. 2, n. 2731 del 02/12/2015, dep. 2016, Conti, Rv. 265729 in tema di prescrizione; Sez. 1, n. 8038 del 18/01/2011, Santoro, Rv. 249843; Sez. 1, n. 43019 del 14/10/2008, Buccini, Rv. 241831; Sez. 1, n. 29508 del 14/07/2006, Maggiore, Rv. 234867 in tema di divieto di sospensione dell'esecuzione di pene detentive brevi; Sez. 1, n. 47903 del 25/10/2012, Cecere, Rv. 253883; Sez. 1, n. 27846 del 13/07/2006, Vicino, Rv. 234717, in materia di detenzione domiciliare).

10. Queste Sezioni Unite ritengono che la laboriosa evoluzione della riflessione giurisprudenziale in tema di recidiva abbia condotto ad acquisire che si tratta di una circostanza aggravante del reato, inerente alla persona del colpevole, che non differisce nei suoi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato, se non per quelli aspetti che risultano esplicitamente regolati in modo peculiare dal legislatore (tra i quali gli effetti indiretti). Pertanto la recidiva risulta oggetto di un giudizio di riconoscimento, che mette radici nell'accertamento del presupposto formale e nella valutazione della relazione tra "precedente" e nuovo reato; a tale giudizio consegue ex se l'esplicazione di ogni effetto, diretto ed indiretto, che ad essa riconduce l'ordinamento, senza necessità di concettualizzare un particolare momento applicativo, così come non si dubita che una volta riconosciuta ad esempio una qualsiasi aggravante comune (ex art. 61 c.p.), questa produca i suoi effetti senza necessità di menzionarne l'applicazione come di una particolare operazione.

E' pur vero che nella trama del codice penale si rivengono due disposizioni nelle quali si legge di recidiva applicata (art. 81, comma 4, e art. 603-ter); ma si tratta di terminologia che intende alludere al fatto che il reo sia stato riconosciuto come recidivo, come attestano le conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite n. 31669/2016.

Per stretta attinenza, merita di essere esplicitato che risulta corretta l'interpretazione che prevalentemente si dà dell'art. 444 c.p.p., comma 1 bis, ove menziona coloro che sono stati "dichiarati" recidivi; si tratta di una locuzione che risente dell'accostamento nella disposizione dei recidivi ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, per i quali effettivamente è disciplinata la dichiarazione dello stato, e che non può essere intesa come dimostrazione della necessità di una "dichiarazione di recidiva", altra rispetto al riconoscimento della circostanza.

Ciò precisato, va ritenuta erronea l'affermazione secondo la quale la recidiva risulta "applicata" "tenendone conto per escludere la concessione delle attenuanti generiche" (così Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, Romano, Rv. 257298). Risulta palese che, non avendo il legislatore attribuito alla recidiva anche l'effetto di interdire il riconoscimento delle attenuanti generiche, non può ipotizzarsi una sua applicazione che in ciò consista.

L'assenza di una qualche relazione tra i due giudizi emerge anche dalla giurisprudenza che esclude vi sia contraddizione tra il riconoscimento della recidiva e quello contestuale delle attenuanti generiche; o tra il giudizio che escluda l'una e quello che escluda anche le altre (cfr. Sez. 6, n. 38780 del 17/06/2014, Morabito, Rv. 260460); o, ancora, tra il diniego delle circostanze attenuanti generiche, giustificato dai precedenti penali dell'imputato, ed il contemporaneo giudizio di equivalenza tra una circostanza attenuante e la recidiva (Sez. 2, n. 106 del 04/11/2009 - dep. 2010, Marotta, Rv. 246045).

11. Il discorso sin qui condotto conduce a prendere in considerazione Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, Rv. 187856, secondo cui "una norma va considerata applicata allorquando essa venga concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai suoi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso. Salvo, quindi, i casi in cui vi sia specifica - pur se indiretta esclusione di taluno di quegli effetti, una norma deve essere ritenuta come applicata non solo quando da essa si facciano conseguire gli effetti tipici o primari, ma anche allorquando ne derivi uno qualsiasi di tali effetti, pure se secondari o collaterali, ma che trovano comunque matrice nella norma. Non sul piano meramente teorico bensì effettivamente incidendo sulla specifica realtà giuridica. Ne consegue che una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realtà giuridica di un processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga - ai sensi dell'art. 69 c.p. - un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato. Invece, non è da ritenere applicata solo allorquando, ancorchè riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all'attenuante la quale non si limita a paralizzarla, ma la sopraffà in modo che sul piano dell'afflittività sanzionatoria l'aggravante risulta tamquam non esset".

Questa decisione ha lasciato irrisolto il nodo delle conseguenze da trarre in caso di recidiva che, in esito al giudizio di cui all'art. 69 c.p., sia valutata subvalente.

11.1. Nella giurisprudenza più recente emerge un'oggettiva incertezza, giacchè all'interpretazione per la quale, ai fini del computo del termine di prescrizione, deve ritenersi "applicata" la recidiva anche se considerata subvalente nel giudizio di bilanciamento con le attenuanti concorrenti (Sez. 7, n. 15681 del 13/12/2016 - dep. 2017, Esposito, Rv. 269669; Sez. 4, n. 8079 del 22/11/2016 - dep. 2017, D'Uva, Rv. 269129), si oppone un diverso orientamento, per il quale la recidiva contestata all'imputato, ritenuta e non applicata dal giudice di merito perchè considerata subvalente rispetto alla circostanza attenuante, non rileva nel calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato (Sez. 2, n. 53133 del 04/11/2016, Chen, Rv. 269139, che richiama proprio la sentenza n. 17/1991; Sez. 5, n. 48891 del 20/09/2018, Donatacci, Rv. 274601, per le quali non è da ritenere applicata l'aggravante quando, ancorchè riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all'eventuale riconosciuta attenuante).

Ad avviso di questo Collegio, la disciplina della prescrizione offre un nitido punto di ancoraggio per la tesi della rilevanza della recidiva anche quando il giudizio di bilanciamento l'abbia vista subvalente; l'art. 157 c.p., comma 3, esclude espressamente che possa tenersi in considerazione il giudizio di cui all'art. 69 c.p., ai fini della determinazione della pena massima del reato di cui trattasi, fattore di riferimento per il computo del termine di prescrizione. E poichè l'art. 161 c.p. richiama talune ipotesi di recidiva coordinando la regola al tempo necessario a prescrivere, definito secondo quanto previsto dall'art. 157 c.p., resta confermato che anche ai fini del computo del termine di prescrizione in caso di sospensione e di interruzione del corso dello stesso la recidiva assume rilievo solo che sia stata riconosciuta.

Ma la questione ha portata più generale; è emersa anche in tema di reato continuato, giacchè si è affermato che il limite minimo per l'aumento stabilito dalla legge nei confronti dei soggetti per i quali sia stata ritenuta la contestata recidiva reiterata non opera quando il giudice abbia considerato la stessa subvalente alle riconosciute attenuanti, in quanto, in tale ipotesi, la recidiva, pur considerata nel giudizio di bilanciamento, non ha però di fatto potuto paralizzare il loro effetto tipico di riduzione della pena (Sez. 6, n. 27784 del 05/04/2017, Abbinante, Rv. 270398). Essa potrebbe ipotizzarsi anche in tema di cd. patteggia mento allargato, ove risulta sinora affrontato solo il caso di recidiva ritenuta equivalente alle concorrenti attenuanti, risolto sostenendo che ai fini della preclusione al patteggiamento a pena detentiva superiore a due anni, è sufficiente che la recidiva, contestata ai sensi dell'art. 99 c.p., comma 4, sia stata riconosciuta dal giudice, anche se in concreto non applicata per effetto del giudizio di equivalenza con circostanze attenuanti (cfr. Sez. 6, n. 23052 del 04/04/2017, Nahi, Rv. 270489).

11.2. Con la già citata Sez. 6, n. 27784/2017 si è ritenuto che la soluzione adottata sia imposta dal principio del favor rei, stante la prospettabilità di plausibili interpretazioni tra loro discordanti.

A queste Sezioni Unite appare prioritario muovere dalla considerazione che, tanto sul piano normativo che su quello logico, il fatto stesso di aver operato il giudizio di bilanciamento presuppone il riconoscimento della recidiva; diversamente, mancando addirittura uno dei termini da comparare, non sussisterebbe quel concorso di circostanze eterogenee che è all'origine delle regole poste dall'art. 69 c.p.. Come puntualizzato dalla stessa sentenza Filosofi, "... all'atto del giudizio di comparazione, l'azione dell'applicare la recidiva si è già esaurita, perchè altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario". Ciò vale anche quando la circostanza aggravante non riesca ad annullare l'attenuante, risultando subvalente all'esito del giudizio di comparazione. L'art. 69 c.p., dal canto suo, chiaramente indica che esito del giudizio di bilanciamento non è la dissolvenza della circostanza subvalente - che in quanto fatto compiuto non può più essere negato - ma la paralisi del suo effetto più tipico, quello di produrre una escursione della misura della pena.

Tuttavia, come si è già considerato, la recidiva si caratterizza, tra le circostanze del reato, per essere produttiva non solo dell'escursione sanzionatoria, ma anche di effetti ulteriori, decisivi per la concreta conformazione del trattamento del condannato recidivo. Nell'attuale quadro normativo la recidiva costituisce circostanza del reato; ma permane una sua specificità funzionale, per il fatto che è produttiva dei cosiddetti effetti indiretti. Se ne censiscono alcuni ancora sul piano della commisurazione della pena; si allude alla previsione del limite minimo dell'aumento di pena da applicare per i reati in concorso formale o in continuazione, ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 4. Altri investono le sorti della punibilità; si è già rammentato l'aumento del tempo necessario alla prescrizione ordinaria del reato e l'incidenza sul termine massimo. Come si è già fatta menzione dell'incidenza sul tempo che determina l'estinzione della pena (art. 172 c.p., comma 7) e sul tempo necessario per ottenere la riabilitazione (art. 179 c.p., comma 2). Vanno ancora rammentate le preclusioni in tema di amnistia (art. 151 c.p., comma 5), di indulto (art. 174 c.p., comma 3).

Anche nella fase esecutiva si registrano previsioni derogatorie al regime ordinario che rinvengono nella riconosciuta recidiva il proprio fondamento. Si rammentano qui: l'entità del periodo di espiazione che permette di fruire dei permessi premio previsti dall'art. 30 ter ord. pen., elevata per i recidivi ex art. 99 c.p., comma 4; la non concedibilità oltre una volta dell'affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall'art. 47, della detenzione domiciliare e della semilibertà al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99 c.p., comma 4, ex art. 58 quater, comma 7 bis, ord. pen (nel testo scaturito da Corte Cost. sent. n. 291/2010).

In modo del tutto peculiare, quindi, quando è in gioco la recidiva, specie se qualificata, la funzione rieducatrice della pena risulta debitrice non tanto, e comunque non solo, della variazione quantitativa della sanzione, quanto anche dell'avvenuto riconoscimento della sussistenza della recidiva.

Orbene, il concreto farsi della risposta punitiva non può essere tenuto in non cale, per il vincolo costituzionale a definire un trattamento sanzionatorio realmente idoneo a conseguire l'obiettivo della rieducazione del reo. Ancorchè la modulazione del trattamento sanzionatorio secondo l'evoluzione del percorso di rieducazione del condannato sia affidato agli organi della esecuzione penale, il giudice della cognizione non può ignorare che la sua statuizione costituisce il primo fattore di un complessivo programma tendente alla rieducazione del condannato; programma che si snoda in modo più rilevante nella fase dell'esecuzione della pena, ma che si forma sulle direttrici identificate dal giudice del merito.

Decisivo è allora considerare che, quando il giudice di merito valuta la recidiva subvalente rispetto alle concorrenti attenuanti, egli esprime una valutazione di disfunzionalità della recidiva rispetto al programma di trattamento che comincia a delinearsi con la fissazione della pena da infliggere. Risulterebbe quindi in patente contraddizione con il giudizio che si cristallizza con la definitività della pronuncia attribuire in questi casi valore alla recidiva nel contesto di successive valutazioni che pure si riflettono sulla conformazione di quel programma.

Ne consegue che, quando la recidiva sia stata ritenuta subvalente, fuori dai casi in cui la rilevanza di tale giudizio sia espressamente esclusa dal legislatore, come non si produce l'effetto diretto sulla pena così non si producono gli effetti indiretti della recidiva.

Su simile caposaldo si è attesta la pertinente giurisprudenza di legittimità, limitando il significato di "applicazione" della recidiva ai casi in cui questa abbia impedito l'attenuazione della pena derivante da concorrenti attenuanti (cfr. Sez. 1, n. 47903 del 25/10/2012, Cecere, Rv. 253883, in tema di divieto di detenzione domiciliare nei confronti dei recidivi reiterati, venuto meno a seguito della modifica dell'art. 47 ter, comma 1 bis, ord. pen., operata dal D.L. 1 luglio 2013, n. 78, art. 2, comma 1, lett. b), n. 1, convertito nella L. 9 agosto 2013, n. 94; Sez. 1, n. 27814 del 22/06/2006, Stacchetti, Rv. 234433, per la quale se con la condanna posta in esecuzione la recidiva reiterata è stata dichiarata subvalente rispetto alle circostanze attenuanti, l'art. 58 quater, comma 7 bis, ord. pen., introdotto con L. n. 251 del 2005, non è di ostacolo alla concessione della semilibertà, perchè la recidiva può ritenersi "applicata", a norma del menzionato art. 58 quater ord. pen., se realizza l'effetto tipico di aggravamento della pena e quindi se nel giudizio di comparazione ex art. 69 c.p., le circostanze attenuanti non sono state dichiarate prevalenti; così anche Sez. 1, n. 33923 del 22/09/2006, Steiner, Rv. 235191).

Va qui ribadito che, ove il giudizio di bilanciamento di cui all'art. 69 c.p., si concluda con una valutazione di subvalenza della recidiva, di questa non può tenersi conto ad alcuno effetto, salvo che nelle ipotesi in cui sia espressamente previsto che deve tenersi conto della recidiva senza avere riguardo al giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p.. Peraltro, proprio previsioni di tal fatta pongono in luce i diversi effetti derivanti da un giudizio che riconosce la recidiva ma la valuta subvalente e una statuizione che nega la ricorrenza della recidiva.

12. Risulta sufficientemente evidente, all'esito dell'itinerario sinora tracciato, come sia fondato su premesse non condivisibili l'orientamento secondo il quale la valorizzazione dei "precedenti penali" che sia stata operata per il diniego delle attenuanti generiche è indice di un giudizio che riconosce la ricorrenza della circostanza aggravante della recidiva, risultando un mero errore il mancato aumento della pena a titolo di recidiva.

Esso non coglie la profonda diversità che caratterizza l'uno e l'altro istituto, con le conseguenti difformità impresse ai giudizi che li concernono. Depaupera il giudizio concernente la recidiva, finendo con il ridurlo alla constatazione della presenza di pertinenti "precedenti penali", che accidentalmente, in forza del reclutamento di mere formule di stile, possono anche risultare correlati retoricamente ad una maggiore colpevolezza per il fatto e ad una maggiore pericolosità sociale del reo, ma senza che il linguaggio possa far velo all'assenza di una reale indagine al riguardo.

Qualifica del tutto arbitrariamente come errore il mancato aumento della pena, facendo emergere con asettica noncuranza quel che costituirebbe, ove fosse effettiva, una patente violazione di legge.

Apre ad effetti in malam partem sulla base di una mera interpretazione della decisione di merito.

13. Può quindi essere formulato il seguente principio di diritto:

"La valorizzazione dei precedenti penali dell'imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee; in tal caso la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato".

14. Calando le superiori premesse nel caso che occupa, il ricorso risulta fondato. Invero, il giudice di primo grado si è limitato a richiamare i precedenti penali dell'imputato per sostenere il diniego delle attenuanti generiche; il richiamo è stato lapidario: "non possono essere concesse le attenuanti generiche atteso che si tratta di soggetti gravati da precedenti penali reiterati, specifici ed infraquinquennali". Nessuna valutazione della relazione tra tali precedenti e i fatti sottoposti al giudizio. Inoltre, a definitiva conferma di una avvenuta esclusione della contestata recidiva, il computo della pena non mostra alcun aumento da imputare alla circostanza in parola. Quanto alla mancata esplicitazione nel dispositivo del giudizio di insussistenza della recidiva, essa non assume rilievo dirimente, dovendo tale omissione essere apprezzata come mero errore materiale, stante la univocità della motivazione, alla luce di quanto sin qui esposto. Va qui ribadito l'orientamento per il quale la discrasia tra motivazione e dispositivo può risolversi a favore della prima a condizione che l'esame della motivazione consenta di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente il procedimento seguito dal giudice per determinare la pena (Sez. 6, n. 1397 del 15/09/2015 - dep. 2016, Loielo, Rv. 266495; tra le molte altre, Sez. 4, n. 26172 del 19/05/2016, Ferlito, Rv. 267153; Sez. 2, n. 13904 del 09/03/2016, Palumbo, Rv. 266660, che indicano nella procedura di rettifica di cui all'art. 619 c.p.p., lo strumento per la correzione dell'errore).

La Corte di Appello ha offerto una motivazione più esplicativa. Alla richiesta dello S. di rivedere il trattamento sanzionatorio in senso più favorevole ha replicato che egli "è gravato di numerosi precedenti penali, che, unitamente al nuovo delitto commesso, valgono a delinearne la negativa personalità e non consentono un trattamento più benevolo..."; ha aggiunto che dalla gravità del fatto emerge la "evidente professionalità dello S. nella commissione di reati in materia di contrabbando e il suo certo inserimento in contesti criminali più ampi dediti a tale tipologia di commerci...", concludendo per la non meritevolezza delle attenuanti generiche. Più stringata, ma non concettualmente dissimile, la motivazione concernente il D.R..

Orbene, anche a concedere che quanto si è appena rammentato possa valere quale motivazione implicita di una riconosciuta maggiorata colpevolezza per il fatto e di più elevata pericolosità sociale degli imputati, non sarebbe possibile ovviare alla negativa statuizione del primo giudizio, perchè non investita dall'appello del Pubblico Ministero. Sicchè a ritenere che la Corte di Appello abbia riconosciuto la contestata recidiva si avallerebbe una indebita reformatio in peius.

Da ciò consegue che il termine di prescrizione avrebbe dovuto essere computato senza alcun riferimento ad una recidiva non riconosciuta; e pertanto in sette anni e sei mesi, decorsi alla data del 19.6.2016.

La sentenza impugnata va quindi annullata senza rinvio perchè i reati sono estinti per prescrizione.

16. Va invece confermata la statuizione concernente la confisca di quanto caduto in sequestro, siccome obbligatoria, ai sensi del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 301.

Giova rammentare che tanto per la giurisprudenza convenzionale (Corte Edu, Grande Camera, 28/6/2018, G.I.E.M. S.r.l. c. Italia), quanto per il Giudice delle leggi (sent. n. 49/2015) l'estinzione del reato per prescrizione non è incompatibile con la confisca obbligatoria, a condizione che siano stati accertati gli elementi oggettivi e soggettivi del reato (Sez. 3, n. 15888 del 08/04/2015, dep. 2016, Sannella, Rv. 266628; Sez. 3, n. 16803 del 08/04/2015, Boezi, Rv. 2635850; Sez. 4, n. 31239 del 23/06/2015, Giallombardo, Rv. 264337; cfr. Sez. 3, n. 1503 del 22/06/2017 - dep. 2018, Di Rosa, Rv. 273534).

Il diritto vivente ha trovato conferma nella introduzione dell'art. 578 bis c.p.p. (inserito dal D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, art. 6, comma 4, sulla riserva di codice), rubricato "Decisione sulla confisca in casi particolari nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione", in base al quale se è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dall'art. 240 bis c.p., il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell'imputato.

Nel caso in esame l'accertamento della sussistenza dei reati è stato conseguito all'esito di due gradi di giudizio, nei quali gli imputati hanno avuto modo di esercitare il diritto di difesa nel merito delle contestazioni loro rispettivamente elevate.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè i reati sono estinti per prescrizione. Conferma la disposta confisca.

Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2019


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