Escluso senz'altro che i compensi dei professionisti (così come il compenso dell'organismo di composizione della crisi) che assistono il debitore nella fase di accesso alla procedura di liquidazione possano annoverarsi tra le “uscite di carattere specifico” imputabili al bene oggetto di ipoteca (in quanto non riguardano l'amministrazione, la conservazione e la liquidazione di quel particolare asset), il problema è se possano ascriversi alla categoria delle “uscite di carattere generale” o se, al contrario, debbano gravare interamente sul ricavato del patrimonio mobiliare e immobiliare libero da garanzie reali (ai sensi dell'art. 14-duodecies, comma 2 e dell'art. 111-bis, comma 2, L.F.).
Come è noto il significato dell'espressione “uscite di carattere generale” utilizzata nell'art. 111-ter L.F. – e oggi ripresa dall'art. 223 CCII – ha di recente dato origine ad un'ampia controversia nella giurisprudenza di merito con particolare riferimento al tema se i crediti per i compensi dei professionisti che abbiano assistito il debitore in vista e nel corso della procedura di concordato preventivo, laddove ammessi in via di prededuzione al passivo del consecutivo fallimento, possano essere considerati uscite di carattere generale, come tali suscettibili di soddisfazione proporzionale sul ricavato della vendita di un immobile gravato da ipoteca, per il caso in cui il ricavato medesimo non sia sufficiente a soddisfare il creditore ipotecario ammesso al passivo (cfr. per completezza e profondità di analisi si vedano soprattutto Trib. Modena, 17 giugno 2023, ordinanza n. 13218/2023 del Primo Presidente della Corte di Cassazione del 4 luglio 2023, Trib. Siracusa del 6 dicembre 2023 e Trib. Modena del 2 gennaio 2024).
In realtà la questione se e in che limiti i creditori ipotecari debbano sottostare anch'essi, prima di esser pagati sul prezzo ricavato dall'immobile ipotecato, alla prededuzione a favore dei creditori della massa, risale almeno al codice di commercio del 1882. Se sotto quel codice l'opinione largamente dominante, anche se non incontrastata, nella dottrina e nella giurisprudenza era che i creditori ipotecari non dovessero in principio subire la prededuzione dei debiti della massa sul “diritto quesito al valore” dei beni sottoposti a ipoteca, salvo il diritto del curatore alla prededuzione delle spese necessarie alla coltivazione, alle riparazioni e all'assicurazione dell'immobile e al soddisfacimento dei suoi onorari, tenuto conto del quantitativo maggiore o minore di lavoro che egli avesse impiegato per la sua conservazione, la legge fallimentare non affrontò direttamente la questione generale e si limitò a risolvere soltanto il problema particolare nato “sotto l'impero del codice [di commercio] e della legge del 1930 […] se il curatore ha diritto a dedurre dal prezzo degli immobili venduti la somma eventualmente liquidatagli quale compenso per l'intera amministrazione fallimentare”; e la soluzione accolta fu quella “già affermata nella giurisprudenza della cassazione, e cioè che al curatore può essere corrisposto un compenso (s'intende in conto della retribuzione finale) nel solo caso che abbia svolto opera di amministrazione degli immobili” (così la Relazione alla Maestà del Re Imperatore del Ministro Guardasigilli, p. 11).
E se all'indomani della introduzione dell'entrata in vigore della legge fallimentare la letteratura specialistica aveva prevalentemente confermato, sulla base dell'allora vigente art. 109 L.F., che sul prezzo ricavato dalla vendita del bene ipotecato dovevano gravare soltanto le spese di procedura e di amministrazione sostenute per la vendita del bene ipotecato (i.e. i costi specifici) che il creditore garantito avrebbe dovuto subire anche se avesse agito con l'esecuzione singolare, ancora negli anni '70 del secolo scorso la più autorevole dottrina commercialistica, abbracciando l'opinione tradizionale, scriveva che quando vi sono creditori assistiti da ipoteca, pegno o privilegio speciale va chiarito che dal ricavato dell'oggetto della garanzia va detratto solo il costo dell'esecuzione relativa all'oggetto medesimo, non anche le spese di giustizia relative a tutta la procedura fallimentare comprese addirittura quelle per la continuazione dell'esercizio dell'impresa, poiché non deve perdersi di vista che il fallimento riguarda i creditori chirografari [e i creditori muniti di privilegio generale], non già i creditori privilegiati [speciali], perché il privilegio [speciale] che li assiste assicura loro, quanto meno normalmente, il pagamento.
Il concetto di “spese generali”, recepito nell'art. 111-ter in occasione della riforma della legge fallimentare attuata con il d.lgs. 5/2006, a quanto consta, emerge per la prima volta nella giurisprudenza di legittimità agli inizi degli anni '70 allorché la Corte di Cassazione ebbe a statuire che il vecchio art. 111 della legge fallimentare andava interpretato “nel senso che la prededuzione delle spese relative alla procedura fallimentare incide sul bene gravato da garanzie reali speciali nei limiti in cui esse si riferiscono all'esecuzione relativa al bene, configurandosi tali limiti nelle spese specificamente sostenute per l'esecuzione e in una aliquota delle spese generali, da calcolarsi in relazione alle circostanze concrete, in misura corrispondente all'interesse e all'utilità ovviamente anche se solo potenziale, cioè sperata ma non concretamente realizzata dal creditore garantito” (così Cass. n. 3015/1971). Con quella decisione la Corte per un verso rigettò la tesi che i debiti della massa di qualunque natura dovessero gravare interamente sul patrimonio libero del fallito, lasciando indenni i creditori ipotecari e pignoratizi, e per altro verso respinse, stigmatizzandola come priva di “una base razionale accettabile”, l'opinione che si era affacciata in una parte della dottrina secondo cui il costo globale della procedura fallimentare andava imputato proporzionalmente al valore di realizzo di ogni singolo bene oggetto di una causa speciale di prelazione, da una parte, e degli altri beni, dall'altra. Doveva allora ricercarsi il punto di equilibrio tra l'esigenza “di assicurare, da una parte, il pagamento delle spese incontrate nella procedura fallimentare, [e] dall'altra, il soddisfacimento dei creditori muniti di garanzia speciale, contenendo in limiti minimi il danno che essi possano risentire per essere stati coinvolti nel procedimento d'esecuzione concorsuale, senza che essi abbiano per siffatto procedimento un particolare interesse, in quanto la garanzia di cui fruiscono avrebbe assicurato il soddisfacimento delle loro ragioni nella più semplice e meno dispendiosa forma dell'esecuzione singolare”. E tale equilibrio, come si è anticipato, fu trovato -vigente l'originaria versione dell'art. 111 L.F.- nella regola per cui la prededuzione relativa alle “spese della procedura fallimentare” può pesare sulla garanzia speciale “nei limiti in cui esse si riferiscono all'esecuzione relativa a [quel] bene”; limiti poi puntualizzati nelle “spese specificamente sostenute” in relazione all'attività di realizzazione della garanzia e, appunto, in “un'aliquota delle spese generali”. Si assicurava con l'affermazione di questa regola, per un verso, “la capienza per le spese dell'amministrazione del fallimento entro equi confini” e per altro verso si salvaguardavano “le garanzie speciali – garanzie che la legge fallimentare in linea di massima mostra chiaramente di volere lasciare integre anche in caso di procedura concorsuale – nella massima misura compatibile con le caratteristiche di codesta procedura; mentre nessun danno può implicare per i creditori chirografari o assistiti da privilegio generale”, atteso che il creditore garantito “è gravato di tutte le spese necessarie per il soddisfacimento delle sue ragioni attraverso lo strumento della procedura concorsuale, anche se questa è per lui è più onerosa”. Si impediva d'altro canto che al creditore ipotecario (o pignoratizio) “si possa far carico di spese affrontate per interessi che gli siano estranei”, prevenendo “il pericolo che l'amministrazione fallimentare si induca ad affrontare spese imprudenti nella fiducia di poterle coprire col ricavo del bene oggetto della garanzia” senza però attuare uno “spostamento degli oneri relativi [alla espropriazione del bene dato in garanzia] sugli altri creditori”.
La regola elaborata da Cass. n. 3015/1971 è stata costantemente ripetuta, con poche variazioni, dalla giurisprudenza di legittimità fino all'introduzione degli artt. 111-bis e 111-ter L.F. (così Cass. 4474/1977, Cass. 394/1978, Cass. 5784/1981, Cass. 953/1987, Cass. 9429/1992, Cass. 5913/1994, Cass. 251/1995, Cass. 5104/1997, Cass. 7756/1997, Cass. 4626/1999, Cass. 9490/2002, Cass. 335/2004 e Cass. 2329/2006) e gli argomenti di carattere logico, sistematico e letterale a sostegno dell'interpretazione fornita dalla Corte nel ‘71 furono successivamente precisati individuandoli in ciò che "dagli artt. 53 e 54 legge fallimentare, che regolano la disciplina dei crediti con diritto di prelazione nel fallimento, si evince il principio che le posizioni di diritto sostanziale efficacemente precostituite a favore di taluni creditori mediante pegno o ipoteca devono essere rispettate anche nella procedura fallimentare" e sostenendo per altro verso che "dagli art. 107 (ultimo comma) e 109 (secondo comma) [nella versione originaria della legge fallimentare] in tema di vendita di immobili emerge[va] inoltre che la distribuzione del ricavato delle vendite immobiliari, nel sistema della legge speciale, è operazione autonoma rispetto alla ripartizione delle altre attività, e che la somma da distribuire ai creditori ipotecari non può essere gravata da oneri diversi da quelli ivi specificamente contemplati" (così Cass. n. 251/1995 e n. 5913/1994). Questi argomenti furono soprattutto alla base dell'orientamento consolidato della Corte “secondo il quale, in sede di ripartizione delle somme ricavate dalla vendita di beni oggetto di ipoteca, i relativi crediti prevalgono sui crediti prededucibili che ineriscano ad obbligazioni sorte […] nell'ambito dell'amministrazione controllata ovvero dell'esercizio provvisorio dell'impresa o dello svolgimento della procedura fallimentare; salvo che (e nei limiti in cui) tali obbligazioni si ricolleghino ad attività direttamente e specificatamente rivolte ad incrementare, o ad amministrare, o a liquidare i beni ipotecati o rechino, comunque, ai loro titolari specifiche utilità” (così ancora Cass. n. 251/1995), con la precisazione che per ravvisare un rapporto tra le obbligazioni contratte dall'imprenditore in amministrazione controllata e il vantaggio derivante alla garanzia dei creditori ipotecari “non è sufficiente il mero collegamento dell'attività imprenditoriale proseguita in regime di amministrazione controllata con le generiche esigenze di risanamento dell'impresa, in quanto la posizione del creditore ipotecario trae autonomamente forza dalla garanzia che vincola specificamente un immobile determinato al soddisfacimento preferenziale delle sue ragioni” (così Cass. 4474/1977 e 5913/1994) e che deve escludersi la prevalenza sul credito ipotecario dei debiti di massa “sorti per mantenere in attività l'azienda ed il suo avviamento” (Cass. 251/1995).
L'importanza di questa giurisprudenza, indipendentemente dai casi specifici che di volta in volta la Corte si trovò a risolvere, risiedeva come è evidente nel tentativo di realizzare, dopo l'abrogazione del codice di commercio e in presenza di una regolamentazione tutt'altro che perspicua dei crediti della massa quale era quella delineata nella legge fallimentare del '42, un coordinamento ottimale
della disciplina della prededuzione con il sistema delle garanzie speciali.
E, tuttavia, le persistenti oscillazioni della giurisprudenza di merito, anche nelle sue più recenti e meditate manifestazioni (soprattutto, Trib. Siracusa, 6 dicembre 2023 e Trib. Modena, 2 gennaio 2024 e, con maggiore sintesi, e Trib. Milano, 23 novembre 2023, Trib. Roma, 26 luglio 2023, Trib. Trapani, 27 dicembre 2019, Trib. Lecco, 7 luglio 2022) dimostrano l'incapacità di quel tentativo di esprimere, nell'attualità, un indirizzo sufficientemente nitido e persuasivo in ordine alla portata del criterio di imputazione delle “spese generali”. Il limite principale di quella giurisprudenza – si ripete di indubbia rilevanza per le intuizioni che la reggevano – deve, forse, ravvisarsi nella difficoltà di mettere completamente a fuoco l'«interesse» giuridicamente protetto di cui sono portatori, nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, i creditori muniti di garanzie reali: basti pensare, da un lato, all'ambiguo e praticamente inservibile riferimento alla necessità di commisurare le spese generali “all'interesse e all'utilità”, anche solo potenziale, del creditore garantito “in relazione alle circostanze concrete” (così Cass. n. 3015/1971) e, dall'altro, all'affermazione per cui i creditori con garanzia speciale, preclusa la “meno dispendiosa forma dell'esecuzione singolare” dal divieto di azioni individuali (art. 51 L.F.), sono coinvolti nel fallimento senza avervi “un particolare interesse”. Concetto, quello di “interesse”, che implicitamente o esplicitamente ricorre (cfr. da ultimo Cass. 18882/2022) e fu posto alla base dei criteri di imputazione dei “costi del fallimento” già nel vigore del codice di commercio del 1882 ma che, in fondo, pare più intuito che spiegato dalla giurisprudenza che nel vigore della legge fallimentare si è occupata del tema, e per l'esatta comprensione del quale è però imprescindibile – circostanza questa apparentemente trascurata – identificare la funzione che un moderno sistema giuridico riconosce alle garanzie specifiche nonché le relazioni che, la legge, istituisce appunto tra i creditori che da quelle sono assistiti e gli altri creditori che fanno affidamento sulla garanzia patrimoniale generica (i.e. i creditori con privilegio generale e i creditori chirografari).
All'esame di quella funzione e di quelle relazioni occorre dunque volgere brevemente l'attenzione.
Posto che, come è stato correttamente notato (così Trib. Modena, 2 gennaio 2024 in critica a Trib. Siracusa, 6 dicembre 2023), appaiono per nulla risolutive le impostazioni del problema basate sulla “vivisezione” della terminologia impiegata dal legislatore e che in particolare nessuna rilevanza può annettersi alla distinzione lessicale tra “crediti prededucibili”, da una parte, e “uscite” e “spese” dall'altro, dato che questi ultimi vocaboli designano senz'altro nel linguaggio economico come in quello della legge i “costi” (i.e. ciò a cui si deve rinunciare per ottenere un bene o un servizio) della procedura da annotare nei conti autonomi (art. 111-ter); “costi” i quali a loro volta si traducono giuridicamente in altrettanti “crediti”, appunto prededucibili ai sensi dell'art. 111, comma 2 L.F. (e oggi ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. d), CCII) nei confronti della massa; e posto altresì, che come è stato osservato le nozioni di “costo specifico” e di “costo generale” esauriscono i casi possibili nel senso che “una uscita […] può avere natura specifica (rispetto ad una massa), oppure generale, ma evidentemente tertium non datur” (così ancora Trib. Modena, 2 gennaio 2024), per comprendere compiutamente il senso dell'espressione “spese generali” (o “costi generali”) conviene muovere dalla contrapposizione con l'altra espressione, usata dalla legge nel contesto qui in esame, e cioè appunto dalla nozione “spese specifiche” (o “costi specifici”).
Se, infatti, si esaminano più dappresso le locuzioni “uscite di carattere specifico” (i.e. costi specifici) e “uscite di carattere generale” (i.e. costi generali), ci si avvede facilmente che il criterio dell'«interesse» non solo è normativamente previsto (diversamente da quanto sostenuto da Trib. Modena, 2 gennaio 2024), ma costituisce la base essenziale della ripartizione dei “costi del fallimento” tra patrimonio libero e beni del debitore vincolati con una garanzia speciale. E, infatti, se le “uscite di carattere specifico” esprimono pacificamente il costo di attività e servizi immediatamente inerenti la conservazione, l'amministrazione e la vendita del singolo bene; attività che sono perciò potenzialmente “utili” (anche se non sempre concretamente: ad es. si pensi ai costi talora molto elevati di una pubblicità o ai costi dell'attività commercializzazione di un commissionario che non producano l'effetto sperato della vendita del bene) per il realizzo di quel particolare asset e che, quindi, sono rivolte a soddisfare l'interesse del creditore o dei creditori a cui è destinato il ricavato della sua liquidazione e non possono essere legittimamente riversate sui creditori che non traggono alcun profitto dal realizzo del suo valore (cuius commoda, eius et incommoda); “uscite di carattere generale” non sono affatto, come si è sostenuto, “quei costi che concernono indistintamente il globale coacervo dei rapporti attivi e passivi di cui è parte il soggetto fallito …: tutti quei costi, quindi, per i quali non è possibile predicare la sicura riferibilità ad una delle componenti attive o passive” (così Trib. Modena, 2 gennaio 2024 e Trib. Milano, 23 novembre 2023). “Uscite di carattere generale” sono invece, per contrapposizione alle “uscite di carattere specifico”, quei costi e solo quelli di cui si può predicare che giovano all'interesse di tutti i creditori, cioè potenzialmente utili a tutti e, in ultima analisi, per realizzare l'“interesse comune” di quelli, siano essi creditori muniti di garanzia speciale, creditori con privilegio generale o creditori chirografari; “interesse comune”, si deve aggiungere, che sia giuridicamente protetto dalla previsione generale e astratta di una norma e quindi, naturalmente, inteso in senso obiettivo e non quale motivo soggettivo o preferenza individuale di questo o quell'altro creditore.
Se il senso della locuzione “uscite di carattere generale” deve dunque esser tradotto con l'affermazione che grava sul prezzo della vendita dei beni ipotecati (o dati in pegno) anche una quota proporzionale dei costi sostenuti nell'interesse comune di tutti i creditori, è necessario allora chiedersi, per identificare i costi generali, in cosa consista e come possa individuarsi un siffatto interesse, appunto, “comune” tanto ai creditori con garanzia speciale quanto ai creditori con garanzia generica.
Per procedere in questa direzione e identificare tale interesse appare conveniente esaminare la posizione dei creditori con garanzia speciale nell'insolvenza del debitore per cogliere quali siano i profili comuni e le note distintive rispetto agli altri creditori.
Ebbene raffrontando il contenuto della posizione giuridica delle diverse categorie di creditori non è dubbio che tutti sono accomunati dal diritto di “far espropriare i beni del debitore” per conseguire quanto è loro dovuto nell'evenienza d'insoddisfazione delle relative pretese (art. 2910 cod. civ.) e, di più, ognuno può contare sul diritto di far espropriare “tutti i beni presenti e futuri” del debitore (art. 2740 cod. civ.), attraverso l'esecuzione singolare o, ricorrendone certi presupposti, mediante un'esecuzione collettiva.
E però mentre i creditori con privilegio generale e i creditori chirografari possono contare esclusivamente sulla garanzia patrimoniale generica del debitore, compresi i profitti che derivano dalla combinazione produttiva dei singoli beni, il creditore assistito da garanzia speciale azionando la prelazione ha, in aggiunta, ”il diritto di espropriare […] i beni vincolati a garanzia del suo credito” e poi di esser soddisfatto “con preferenza sul prezzo ricavato dall'espropriazione” (art. 2808 cod. civ.).
La portata e la funzione del “vincolo” impresso sui beni che formano oggetto della garanzia reale non è, come si può già intuire, privo di rilevanza nell'indagine che si sta svolgendo: e infatti mentre i creditori che confidano nella garanzia patrimoniale generica, ivi inclusi i creditori assistiti da privilegi generali, così come possono profittare del plusvalore del coordinamento produttivo dei beni che compongono il patrimonio, sono istituzionalmente esposti al rischio di trasformazioni qualitative e quantitative del patrimonio del debitore fino alla data dello spossessamento, e sopportano, quindi anche il rischio della creazione di nuovi debiti e finanche di nuovi debiti muniti di privilegi di rango poziore, il creditore assistito da garanzia speciale, in forza del vincolo impresso con la costituzione della garanzia, è istituzionalmente insensibile a quel rischio e alle scelte di gestione del patrimonio generale fatte dal debitore. In altri termini, il debitore non può in alcun modo alterare la posizione di preferenza precostituita a favore del creditore ipotecario (o pignoratizio) sul bene vincolato a garanzia del suo credito mentre può in ogni momento, anche se in “crisi” o “insolvente”, alterare la posizione dei creditori chirografari e di quelli muniti di privilegi generali, assumendo nuove obbligazioni, anche dotate di rango superiore, e disporre dei propri beni nel corso ordinario della propria attività assottigliando la garanzia patrimoniale generica, con l'unico limite costituito dall'inefficacia o dalla revocabilità degli atti pregiudizievoli. È in questo senso che può ripetersi e conserva ancora piena validità l'affermazione, fatta dal più illustre fallimentarista della scuola italiana sotto il codice di commercio, che il creditore ipotecario ha un “diritto quesito al valore” dei beni dati in garanzia. Diritto intangibile dal debitore e, si deve aggiungere, a fortiori intangibile anche nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali atteso che la funzione essenziale di quella preferenza si esplica proprio ed esclusivamente nel caso d'insolvenza del debitore, allorché la garanzia patrimoniale generica è divenuta insufficiente a soddisfare interamente le pretese di tutti i creditori.
Nel che deve individuarsi la funzione essenziale delle garanzie reali: segregare uno o più beni del debitore dall'andamento e dalle sorti del patrimonio generale, ‘localizzando' e ‘specializzando' la garanzia del credito e ‘isolando' i rischi (di illiquidità, di svalutazione, di deterioramento, di perimento, ecc.) inerenti a quei beni dai rischi che riguardano la gestione del complessivo patrimonio del debitore e l'esercizio dell'impresa. Di qui, la notevolissima rilevanza delle garanzie reali per lo sviluppo del mercato del credito e per il funzionamento dell'economia nel suo complesso: la riduzione dei costi di monitoring (i.e. il creditore non è tenuto per salvaguardare il proprio credito a controllare l'andamento generale del patrimonio del debitore) e la segregazione dai rischi della gestione del patrimonio del debitore, comportano, infatti, a parità di condizioni, una riduzione del costo del credito data dal più basso premio per il rischio chiesto dal creditore garantito rispetto alla generalità degli altri creditori e, quindi, una più larga capacità di accesso dei prenditori di capitali sul mercato finanziario.
6.- Ora, se ogni creditore è titolare del diritto di far espropriare i beni del debitore e cioè ha diritto di ottenere la liquidazione invito domino dei beni del debitore in caso di insoddisfazione della sua pretesa, può affermarsi che l'interesse che contraddistingue indistintamente tutti i creditori nell'insolvenza del debitore è, appunto, l'interesse alla espropriazione (i.e. alla conservazione e alla liquidazione) dei beni del debitore e può ulteriormente dedursi che “spese generali” destinate a soddisfare quel comune interesse, al pari delle “spese specifiche”, sono appunto esclusivamente quelle fatte per l'espropriazione (i.e. per la conservazione e la liquidazione) dei beni del debitore nell'«interesse comune dei creditori», allo stesso modo di quanto è detto negli artt. 2755 e 2770 cod. civ. e sono perciò, da questo punto di vista, suscettibili di intaccare anche il “diritto quesito al valore” dei beni vincolati con una garanzia speciale, come lo sarebbero in un'esecuzione singolare alla stregua di quelle disposizioni.
E però mentre sono “specifiche” le spese (i.e. i costi) che ineriscono alla conservazione e al realizzo del singolo bene, “generali” non sono i costi che attengono alla conservazione, amministrazione e liquidazione del patrimonio complessivo del debitore, bensì solo quei “costi” che, in uno stato del mondo privo di una “esecuzione collettiva”, ogni creditore dovrebbe di volta in volta affrontare individualmente per l'esercizio dell'esecuzione singolare (ad es. pignoramento, contributo unificato, spese di custodia e compensi del soggetto incaricato della vendita, ecc.), sicché in caso di una molteplicità di esecuzioni singolari dovrebbero essere ripetutamente sostenute da ogni creditore che agisca esecutivamente e che, nel contesto di un'esecuzione collettiva, devono invece essere sostenuti una sola volta (ad es. spese del giudizio di fallimento, contributo unificato, a certe condizioni il compenso del curatore, ecc.) con un beneficio che si riverbera a favore di tutti i creditori e che tutti i creditori collettivamente devono, perciò, sostenere con il loro contributo. E, infatti, se lo scopo del divieto di azioni esecutive individuali e uno dei principali effetti del fallimento è proprio quello di sostituire ad una pluralità di esecuzioni (i.e. liquidazioni) individuali scoordinate una gestione liquidatoria accentrata, evitando che il patrimonio del debitore venga frantumato in molteplici espropriazioni e gravato dai costi delle singole azioni, per essere, appunto, devoluto ad una liquidazione unitaria ad opera degli organi della procedura, è del tutto razionale (cuius commoda, eius et incommoda) che anche i creditori garantiti sopportino pro quota, con il valore di realizzo della garanzia, quel tipo di spese affrontate nell'interesse comune di tutti i creditori e che gli stessi creditori garantiti avrebbero dovuto affrontare in misura maggiore (ponendole poi a carico del debitore) laddove avessero condotto un'esecuzione individuale (a conclusioni analoghe, curiosamente contraddette tuttavia nella stessa pronuncia dalla posizione assunta in ordine al compenso del commissario giudiziale, giunge Trib. Siracusa, 23 dicembre 2023 con il rilievo che: “L'idea è sostanzialmente quella di far gravare sul ricavato della liquidazione del bene oggetto di ipoteca unicamente le spese nate da operazioni strumentali al raggiungimento del fine satisfattivo, vale a dire quegli oneri economici che, sin dal momento della concessione della garanzia reale, il creditore garantito si è potuto rappresentare come necessari per la eventuale futura realizzazione della sua garanzia”).
Di qui un rilievo fondamentale: non ha alcuna base l'affermazione tradizionale della giurisprudenza di legittimità - ripresa dagli scrittori che l'avevano formulata nel vigore del codice di commercio - secondo cui i creditori ipotecari sono “coinvolti nel procedimento d'esecuzione concorsuale, senza che essi abbiano per siffatto procedimento un particolare interesse”. È vero, invece, soltanto che i creditori garantiti, nella misura in cui la garanzia speciale sia capiente, non traggono alcun giovamento dalla liquidazione del globale coacervo dei rapporti attivi e passivi di cui è parte il soggetto fallito (i.e. della garanzia patrimoniale generica del debitore). E tuttavia poiché pure i creditori privilegiati e quelli chirografari hanno diritto di soddisfarsi sul bene dato in garanzia dopo che sia soddisfatto integralmente il creditore garantito e, d'altro canto, prima della liquidazione non è possibile sapere se la garanzia speciale sarà effettivamente capiente per soddisfare integralmente il creditore garantito e gli altri creditori postergati, l'esecuzione collettiva deve in principio riguardare anche quel bene e il creditore garantito deve contribuire pro quota anche alle spese generali di liquidazione della garanzia che avrebbe dovuto pur sempre anticipare individualmente se avesse intrapreso un'esecuzione singolare.
Se si condivide questa impostazione dovrebbe risultare ormai chiara l'infondatezza della tesi secondo cui la locuzione “spese generali” andrebbe intesa come equivalente ai costi che “concernono indistintamente il globale coacervo dei rapporti attivi e passivi di cui è parte il soggetto fallito” (così Trib. Modena del 2 gennaio 2024 e la giurisprudenza ivi citata e nello stesso senso Trib. Milano, 23 novembre 2023 ove si trova l'affermazione inaccettabile, dal punto di vista che qui si difende, secondo cui rientrano nelle spese generali “quelle spese sostenute generalmente ed indistintamente nell'interesse della massa dei creditori” incluso il compenso “dei coadiutori nominati a tutela della massa”): e, infatti, si è detto che la funzione economicamente e giuridicamente essenziale delle garanzie reali in una moderna economia di mercato è proprio quella di segregare il creditore garantito dai rischi e dai costi che riguardano il globale coacervo dei rapporti attivi e passivi di cui è parte il debitore sicché addossare al creditore garantito quei costi, allorché il rischio di insolvenza si è materializzato, significa in buona sostanza tradirne la funzione (così in sostanza anche Trib. Siracusa, 23 dicembre 2023). E, ciò che appare ancora più paradossale, significa addossare sul creditore garantito i costi dell'insolvenza del debitore proprio nel momento in cui, data la manifesta insufficienza della garanzia patrimoniale generica a soddisfare interamente le pretese di tutti i creditori, la garanzia specifica dovrebbe pienamente operare ed esplicare i suoi effetti “assicurativi”.
D'altro canto, sempre seguendo l'itinerario fin qui suggerito, dovrebbe esser ormai chiaro il motivo per cui in nessun caso il creditore ipotecario (e il creditore pignoratizio) dovrebbe sopportare i costi di prosecuzione dell'attività del debitore sia nell'ipotesi dell'esercizio provvisorio dell'impresa nel fallimento (e ora nella liquidazione giudiziale) sia, a maggior ragione, nel caso di continuazione dell'impresa ad opera del debitore che decida di avventurarsi in un tentativo di risanamento in continuità aziendale o di liquidazione in bonis attraverso un concordato preventivo liquidatorio. E, infatti, poiché l'interesse giuridicamente protetto dalla garanzia reale è proprio quello di immunizzare il creditore garantito dai rischi e dai costi della gestione del patrimonio globale del debitore in caso di insolvenza e poiché al debitore (e al curatore in sua sostituzione) è inibito alterare la preferenza del creditore garantito sul valore della garanzia, non può trovare alcun ingresso la pretesa di addossare su quest'ultimo i costi della prosecuzione dell'attività, ivi incluso il costo dei professionisti che assistono il debitore nell'accesso a procedure alternative al fallimento e ivi incluso anche il compenso del commissario giudiziale nominato dal tribunale (diversamente per quanto riguarda il commissario giudiziale, Trib. Siracusa, 23 dicembre 2023 che, dopo aver affermato che le “uscite di carattere generale” devono identificarsi esclusivamente con le spese della procedura fallimentare, contraddittoriamente riconduce a quelle “uscite” il compenso del commissario in quanto “spesa di giustizia”), atteso che non tutte le “spese di giustizia” possono incidere sul creditore ipotecario (ad es. non quelle di cui all'art. 2755 cod. civ.) ma solo quelle che, nel significato che si è cercato di chiarire, sono “comuni” a tutti e riguardano la liquidazione della garanzia, con esclusione dei costi che si riferiscono al globale coacervo dei rapporti attivi e passivi di cui è parte il debitore.
Viceversa, poiché i creditori assistiti da privilegio generale e i creditori chirografari non sono titolari di una posizione di preferenza precostituita e il debitore può in ogni momento, anche se in “crisi” o “insolvente”, modificare la garanzia patrimoniale generica, assumendo nuove obbligazioni, anche provviste di un rango superiore, e disporre dei propri beni nel corso ordinario della propria attività, è del tutto coerente che – così come beneficiano degli eventuali profitti della combinazione produttiva dei beni del debitore e ceteris paribus ottengono un premio per il rischio maggiore di quello richiesto dal creditore garantito – sopportino i costi e i rischi dei tentativi di continuazione dell'attività o della sua liquidazione in bonis.
Né può sovvertire questa conclusione il rilievo per cui “l'indifferenza del creditore ipotecario alle sorti del concordato è un dato che trova riscontro ampio, ma solo da un punto di vista empirico, e non astratto: se la debitrice dovesse approntare un piano concordatario che conduce ad una continuità aziendale favorevole, potrebbe ad esempio essere valorizzata anche la componente immobiliare (a tutto vantaggio, in primis, del creditore garantito), magari attraverso la locazione del medesimo e la generazione di frutti civili”. E, infatti, come si è ormai ripetuto troppe volte, la garanzia specifica svolge la funzione, giuridicamente rilevante, di assicurare al suo titolare il “valore” del bene vincolato, compresi i miglioramenti, le costruzioni e le altre accessioni (art. 2811 cod. civ.), e assolve il compito di proteggerlo dai “rischi” dell'andamento del patrimonio globale del debitore ed è, pertanto, irrilevante (oltre che statisticamente raro) che, di fatto, la continuazione dell'attività d'impresa possa produrre vantaggi anche per il creditore ipotecario, tanto più che i vantaggi prospettati dai sostenitori della opinione che si sta criticando (la locazione del medesimo e la generazione di frutti civili o la vendita in continuità indiretta dell'azienda) e altri ancora ipotizzabili, potrebbero allo stesso modo essere realizzati nel fallimento e, quindi, non potrebbero in alcun modo giustificare ex ante l'imposizione di maggiori “rischi” ed ex post l'accollo dei maggiori “costi” di soluzioni alternative alla liquidazione che non abbiano avuto successo.
Si è affermato recentemente in una delle più consapevoli prese di posizioni sul tema che, precludendo ai professionisti che assistono il debitore di soddisfarsi in prededuzione sulla componente immobiliare oggetto di garanzia ipotecaria, potrebbero essere scoraggiate le iniziative dirette alla tempestiva emersione della crisi ed alle ristrutturazioni aziendali poiché è “inimmaginabile […] pensare che il debitore possa ricorrere ad un ausilio professionale volto alla tempestiva emersione della crisi, se non abbia la ragionevole certezza di poter compensare i professionisti”; e che imponendo ai creditori garantiti di sopportare una parte dei costi e dei rischi delle iniziative di risanamento i soggetti titolari di garanzie reali sarebbero incentivati ad attivarsi più efficacemente per la soluzione delle crisi aziendali poiché “è oggettivamente iniquo ipotizzare che un soggetto finanziatore possa serenamente attendere l'evolversi degli eventi generatori della insolvenza, astenendosi dall'adottare iniziative di qualsiasi genere (individuali o concorsuali), confidando in ogni caso che eventuali tentativi di soluzione negoziale sarebbero compensati solo e soltanto con la liquidazione di beni diversi da quello oggetto della propria garanzia particolare”, con la conseguenza di “una generalizzata inerzia del debitore e dei creditori più forti, a tutto discapito del ceto creditorio più debole e privo di strumenti adeguati e del tessuto economico nel suo complesso” (così Trib. Modena, 2 gennaio 2024).
Premesso che le soluzioni negoziali delle crisi d'impresa alternative alle liquidazioni giudiziali non sono ammesse incondizionatamente dall'ordinamento ma solo nella misura in cui permettono “ai debitori di ristrutturarsi efficacemente in una fase precoce e prevenire l'insolvenza e quindi [al fine di] evitare la liquidazione di imprese sane” (considerando n. 2 della Direttiva Insolvency) sul presupposto che il “valore di continuità aziendale è, di norma, superiore al valore di liquidazione, poiché si basa sull'ipotesi che l'impresa continua la sua attività con il minimo di perturbazioni, ha la fiducia dei creditori finanziari, degli azionisti e dei clienti, continua a generare reddito e limita l'impatto sui lavoratori” ” (considerando n.49 della Direttiva Insolvency), mentre “le imprese non sane che non hanno prospettive di sopravvivenza dovrebbero essere liquidate as quickly as possible” (considerando n. 2 della Direttiva Insolvency), questo giudice delegato si permette sommessamente di dissentire.
Va, infatti, osservato che l'incontrollato ampliamento dei “costi generali” posti a carico dei creditori garantiti, suggerito dell'opinione che si sta criticando e largamente favorito da molte ‘prassi' comuni alla maggior parte dei tribunali concorsuali, produce effetti distorsivi perniciosissimi sia per il buon funzionamento del mercato delle ristrutturazioni aziendali sia per l'economia nel suo complesso, superiori ai possibili benefici associati ad una (supposta) più ‘equa' redistribuzione dei rischi e delle perdite tra tutti i creditori, in quanto:
i) incentiva indebitamente i debitori ad intraprendere progetti di risanamento ad alto rischio, insostenibili o fantasiosi di imprese che non presentano un valore prospettico di continuità maggiore del valore di liquidazione e che dovrebbero essere liquidate “as quickly as possible”, finanziandoli – nell'impossibilità di prospettare un piano serio e credibile di continuità fondato sul recupero della redditività aziendale a lungo termine – con le risorse derivanti dal valore di liquidazione dei beni già dati in garanzia ad altri creditori;
ii) incentiva indebitamente i professionisti delle crisi aziendali, inducendoli a confidare nel valore della garanzia immobiliare, a consigliare o ad avallare imprudentemente progetti di risanamento insostenibili o addirittura fantasiosi di imprese senza prospettive di sopravvivenza che dovrebbero essere liquidate il più presto possibile, così pregiudicando soprattutto i creditori con privilegio generale e chirografari che subiscono le prededuzioni derivanti dalla continuazione dell'attività del debitore; laddove il professionista che diligentemente progetta o partecipa alla costruzione di un serio e credibile progetto di risanamento (o di liquidazione in bonis), al pari di ogni altro creditore dell'impresa, e tanto più per il fatto di possedere informazioni che altri creditori non possiedono, dovrebbe nutrire piena fiducia nel superiore valore della continuità aziendale (o del superiore valore della liquidazione concordataria) che lui stesso con il debitore propone ai creditori concorsuali;
iii) incentiva indebitamente i curatori, nella gestione dei patrimoni fallimentari, ad intraprendere iniziative imprudenti, inefficienti o addirittura vistosamente parassitarie nella fiducia di poterle coprire col ricavato del bene oggetto della garanzia (così già Cass. n. 3015/1971) (ad es. suggerendo che i costi dei coadiutori o dei professionisti nominati per l'esercizio di azioni di responsabilità o di azioni revocatorie, per l'intervento nell'esecuzione promossa dal fondiario e più in generale delle liti attive e passive del fallimento possano gravare sul ricavato immobiliare destinato all'ipotecario);
iv) accresce ulteriormente, anziché mitigare, la diffidenza dei creditori finanziari nei confronti delle procedure negoziali di soluzione della crisi con la minaccia di addossare sui creditori garantiti i rischi e i costi dell'insuccesso delle iniziative di risanamento;
v) rafforza ulteriormente, anziché smentire, nei creditori finanziari -che dovrebbero essere maggiormente stimolati ad anticipare le iniziative dirette alla liquidazione delle imprese insolventila falsa credenza che le liquidazioni giudiziali siano “più dispendiose” delle esecuzioni singolari;
falsa credenza poiché: a) la maggiore “dispendiosità” delle liquidazioni giudiziali rispetto alle esecuzioni singolari dipende esclusivamente dal discutibile ampliamento operato in via interpretativa dei “costi specifici” e dei “costi generali” posti a carico dei creditori garantiti per discutibili ragioni equitative che frustrano completamente il senso e la funzione delle garanzie speciali, laddove un'esecuzione collettiva razionalmente governata, in quanto si sostituisce a una molteplicità di esecuzioni singolari scoordinate, e ai costi ripetuti che ciascuna di esse implica, una liquidazione accentrata e coordinata del patrimonio del debitore, dovrebbe di per sé essere sempre meno costosa per tutti i creditori (e per il debitore) e non dovrebbe operare indebiti trasferimenti di ricchezza tra l'una e l'altra categoria di creditori che non sarebbero stati possibili prima dello spossessamento; b) non vi è alcuna ragione per ritenere che, a parità di attivo ipoteticamente realizzabile, le liquidazioni condotte da curatori inefficienti siano più onerose o più dannose per i creditori delle liquidazioni governate da giudici dell'esecuzione inefficienti; c) è certo invece che la struttura degli incentivi apprestata dalla legge per favorire una efficiente gestione dei patrimoni fallimentari da parte del curatore (criteri di nomina, revocabilità, compenso basato sull'ammontare
dell'attivo realizzato, regime di responsabilità di diritto comune), ove correttamente applicata, è incomparabilmente più favorevole per i creditori rispetto al sistema che caratterizza lo status del giudice dell'esecuzione (sostanziale casualità della nomina, inamovibilità dalle funzioni, remunerazione indipendente dai risultati, regime di responsabilità di diritto speciale per l'esercizio della funzione giurisdizionale);
vi) accresce, invece di ridurre, la diffidenza dei creditori finanziari nei confronti delle liquidazioni giudiziali (e del fallimento) con la minaccia di addossare sui creditori garantiti i rischi e i costi di gestioni dei patrimoni fallimentari sostanzialmente parassitarie. Si pensi ad es. alla prassi della maggioranza dei tribunali concorsuali di considerare le spese del difensore che assiste il fallimento nell'espropriazione proseguita dal creditore fondiario come una spesa da porre a carico dello stesso fondiario (costretto a subire una duplicazione dei costi legali di escussione della garanzia), laddove è evidente che l'intervento del curatore è fatto nell'interesse di tutti gli altri creditori per controllare che la vendita sia effettuata al prezzo più alto tale da consentire di soddisfare, dopo la prelazione, anche i creditori privilegiati e chirografari e deve gravare piuttosto sul patrimonio libero del debitore. E, ancora, si pensi agli effetti gravemente distorsivi creati dalla prassi dominante presso i tribunali concorsuali di liquidare il compenso del curatore tenendo conto del prezzo di vendita degli immobili ricavato nell'esecuzione proseguita dal creditore fondiario, incoraggiando l'inerzia del curatore, laddove è chiarissimo che l'attivo realizzato dal creditore fondiario con l'esecuzione singolare non è affatto un “attivo realizzato” dal curatore (realizzato cioè impegnando le funzioni di liquidatore che al curatore spettano e che costituiscono il nucleo essenziale dei compiti dell'organo gestorio del fallimento) ai sensi dell'art. 1 del DM 30/2012, così come non è “attivo realizzato” dal curatore il prezzo dei beni allorché le vendite siano “effettuate dal giudice delegato” secondo le disposizioni del codice di rito né è “attivo realizzato” dal curatore il prezzo delle vendite compiute dal giudice dell'esecuzione nelle procedure esecutive in cui il curatore sia subentrato. E gli esempi potrebbero ancora proseguire;
vii) last but not least produce una incontrollabile proliferazione dei rischi e dei costi di escussione delle garanzie reali con effetti indesiderabili sul costo dei finanziamenti bancari e, in ultima analisi, sulla loro accessibilità e sostenibilità.
L'indebito ampliamento dei “costi generali” (e in verità anche dei “costi specifici”) addossati ai creditori garantiti, giustificato al fondo da esigenze vagamente equitative (ad es. pagare il compenso al curatore e ai professionisti che lo hanno assistito nei fallimenti con attivo esclusivamente immobiliare), diffusissimo nella giurisprudenza di merito nonostante il quadro rassicurante offerto dal Primo Presidente della Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 13218 del 4 luglio 2023, in ultima analisi ha prodotto nei passati decenni e continua a produrre nell'attualità, ben al di là del tema dei compensi dei professionisti del concordato preventivo, indesiderabili distorsioni nella struttura degli incentivi dei debitori, dei professionisti, dei creditori e degli organi delle procedure concorsuali, con gravi conseguenze sul funzionamento delle procedure concorsuali e dell'economia nel suo complesso.
L'unica interpretazione compatibile con un appropriato sistema degli incentivi di tutti gli attori delle procedure concorsuali (o comunque l'interpretazione preferibile date le alternative disponibili a legislazione invariata) è dunque quella che impone al creditore ipotecario di sostenere, oltre alle spese “specifiche” – correttamente intese – inerenti la conservazione e la liquidazione del singolo asset che forma oggetto di garanzia, le spese “generali” intese (non come i costi che attengono all'amministrazione indistinta del patrimonio complessivo del debitore bensì) come i “costi” che, in un ordinamento senza esecuzione collettiva, ogni creditore dovrebbe affrontare individualmente per l'esercizio della ‘sua' esecuzione singolare e che, in un ordinamento dotato di un'esecuzione collettiva razionalmente governata, devono invece essere sostenuti una sola volta con un beneficio che si riflette a beneficio di tutti i creditori e di cui tutti i creditori devono, perciò, pro quota farsi carico.
Fonte: Tribunale Lecco sez. I, 19/01/2024