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Lesioni colpose: la posizione di garanzia può deriva solo da una investitura formale


Sentenze della Corte di Cassazione in relazione al reato di calunnia

La massima

In tema di lesioni colpose e reati omissivi colposi, la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante, purché l'agente assuma la gestione dello specifico rischio mediante un comportamento di consapevole presa in carico del bene protetto. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso la sussistenza di un obbligo di vigilanza in capo alla madre e alla sorella non conviventi di un soggetto maggiorenne, riconosciuto incapace di intendere e volere solo in esito al processo penale, in quanto ritenuto affetto da patologia dalle stesse non riconoscibile prima della commissione del reato - Cassazione penale , sez. IV , 25/05/2022 , n. 21869).

 

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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. IV , 25/05/2022 , n. 21869

RITENUTO IN FATTO

1. La sera del (OMISSIS) in (OMISSIS) alcuni passanti avevano visto fiamme provenienti dalla palazzina sita di fronte alla Asl e si erano fermati in prossimità dell'edificio dove vivevano Sp.An., la madre Bu.An. e la sorella S.A.. Uno dei passanti era sceso dall'auto e aveva citofonato per avvisare dell'incendio, vedendo al primo piano dietro una finestra due donne, che però avevano chiuso la serranda. Subito dopo erano iniziati gli spari provenienti dalla palazzina, che avevano colpito uno dei passanti e, successivamente, anche un metronotte che si era fermato per soccorrerlo. La sparatoria era proseguita anche dopo l'arrivo delle forze di polizia che, entrate nello stabile, avevano incontrato la madre e la sorella di Sp.An., le quali avevano detto loro, salendo, di prestare attenzione all'ultimo piano; l'edificio presentava sulle scale interne ostacoli e ostruzioni all'accesso all'ultimo piano, e nell'appartamento al secondo piano vi era una botola di accesso al terrazzo costruita in una delle stanze occupate dallo Sp.; i poliziotti avevano iniziato una trattativa con lo stesso, all'esito della quale l'uomo si era arreso. I colpi esplosi da Sp.An. avevano cagionato la morte di D.G.G. e di Z.A.N., nonché il ferimento con lesioni personali di altre sette persone. Lo Sp., tratto a giudizio per il reato di omicidio volontario plurimo nonché per illegale detenzione di congegni micidiali, era stato assolto per vizio totale di mente.


2. L'imputazione contestata a Bu.An. e S.A., rispettivamente madre e sorella di Sp.An., nel presente processo concerne il reato di cui agli artt. 110 e 81 c.p. e L. 20 ottobre 1967, n. 895, art. 2 (capo A) e i reati previsti dagli artt. 589 e 590 c.p. (capo B), per avere detenuto illegalmente in concorso con Sp.An. diversi congegni micidiali e per aver consentito che quest'ultimo li installasse nelle zone condominiali, oltre che per aver omesso di informare l'autorità di pubblica sicurezza nonché di dare comunicazione, per la predisposizione di eventuali provvedimenti sanitari,alle competenti strutture sanitarie, delle gravi anomalie comportamentali del familiare, così concorrendo a cagionare la morte di D.G.G. e di Z.L.A.N. e le lesioni personali di St.Ad., Bu.Pa., I.A., C.C., P.S., M.F. e Ma.Ma.. I giudici delle due fasi di merito sono pervenuti alla pronuncia assolutoria con formula "perché il fatto non sussiste".


2.1. In particolare, i giudici hanno escluso in capo alle imputate la titolarità di una posizione di garanzia, non essendo previsto un obbligo giuridico di controllo nei confronti di soggetti maggiorenni capaci di intendere e di volere in quanto non sottoposti formalmente a limitazioni di capacità e a conseguenti limitazioni di agire ovvero al controllo di un tutore o di un curatore; hanno, altresì, escluso profili di colpa generica e specifica rimproverabili alle donne sia in merito alla detenzione dei congegni micidiali, sia in merito agli obblighi informativi prescritti dalla L. n. 110 del 1975, sia in merito ad obblighi di comunicazione alle autorità sanitarie.


2.2. Con riferimento agli obblighi del cittadino che rinvenga armi o esplosivi prescritti dalla L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 20, i giudici di merito ne hanno escluso l'operatività nel caso concreto, in quanto lo Sp. aveva impedito alle donne di prendere coscienza dell'esistenza di armi o di esplosivi nell'edificio, avendo apposto barriere e ostacoli per l'accesso alle aree comuni. Con riguardo all'obbligo di comunicare alle competenti autorità sanitarie le anomalie comportamentali del familiare, i giudici hanno escluso l'esistenza di uno specifico obbligo di intervento in capo ai congiunti di un soggetto maggiorenne legalmente e formalmente non incapace, ritenendo in particolare non applicabili alle imputate le norme circa la responsabilità dei sorveglianti previste dagli artt. 2047 e 2048 c.c., in difetto di una accertata fonte del postulato dovere di sorveglianza e intervento nei confronti dello Sp., ultracinquantenne, non interdetto né inabilitato né con le stesse convivente.


2.3. Con riguardo alla generica violazione di un dovere di diligenza e prudenza correlato alla specifica situazione del caso concreto, i giudici hanno attribuito valore agli esiti della perizia espletata nel corso del giudizio di primo grado, da cui era emerso che la patologia da cui Sp.An. è affetto si rivela soltanto nel singolo episodio violento, laddove fino a quel momento il congiunto si era manifestato come persona tranquillissima dal comportamento assolutamente adeguato alle circostanze, la cui patologia non era assolutamente riconoscibile dall'uomo comune, da tanto desumendo che le donne non fossero consapevoli della gravità della situazione e del pericolo alla stessa collegato. Ne' poteva ascriversi alle donne, secondo quanto si legge nelle sentenze, la conoscenza o conoscibilità della presenza dei congegni micidiali detenuti dallo Sp., che si trovavano per la maggior parte sul terrazzo condominiale e in uno degli appartamenti nell'esclusiva disponibilità del congiunto, mentre l'ulteriore congegno davanti alla porta del terrazzo, murata e protetta sulla parte retrostante da una lastra di acciaio imbracata con corde d'acciaio al fine di impedirne lo sfondamento, non era agevolmente percepibile né accessibile. La situazione di fatto rilevata nello stabile dagli inquirenti dimostrava come non fosse possibile per alcuno arrivare al punto in cui si trovava il congegno collocato dinanzi alla porta del terrazzo, così che non era possibile ipotizzare alcun diretto contatto tra le donne e i congegni presidiati e resi inaccessibili dallo Sp., e conseguentemente alcuna condotta concorrente nella detenzione dei medesimi.


3. Ricorrono per cassazione ai soli effetti civili T.G.4Zippo Nadia,.2Di Gianfelice Silvana e.3Di Gianfelice Antonio c.l.s.i.s.b.d.s.m.


-.e.i.e.a.d.a.1.e.1.c.a.4.c.c.1.e.2.a.5.e.5.c.e.m.d.m.i.r.a.f.c.a.c.B.a.l.d.c.l.i.h.a.d.l.d.d.c.d. S.A. perché sono rimaste per anni a guardare il figlio-fratello che non solo viveva con loro in condizioni che riflettevano chiaramente tutti i gravissimi problemi mentali dello stesso, ma continuava con il loro aiuto ad accumulare armi di precisione;


- erronea interpretazione e applicazione degli artt. 42,110 e 113 c.p. per avere i giudici escluso la configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso, chiedendo la difesa che la questione sia rimessa al vaglio delle Sezioni Unite;


- violazione di legge e vizio di motivazione per avere omesso i giudici di merito la condanna delle imputate per agevolazione colposa della strage o dei singoli delitti di omicidio e lesioni, ritenendo la difesa che le imputate fossero a conoscenza del fatto che il loro congiunto presentasse gravi problemi mentali cosicché la loro condotta non poteva non considerarsi imprudente e agevolatrice della commissione dei delitti;


- violazione dell'art. 40 c.p., comma 2 e art. 589 c.p. nonché di tutte le norme extra-penali rilevanti ai fini dell'individuazione di una posizione di garanzia, ritenendo il difensore che, al contrario di quanto affermato dai giudici di merito, alle imputate possono essere addebitate tre violazioni e, in particolare, quella degli artt. 2047 e 2048 c.c., la violazione che imponeva di denunciare alle autorità di pubblica sicurezza il fatto che il congiunto detenesse un vero e proprio arsenale e avesse predisposto una serie di strumenti di difesa atti ad offendere chiunque si fosse avvicinato alla casa, nonché la violazione delle norme che imponevano di chiedere l'intervento di un medico o di un sanitario che potesse curare o tenere sotto controllo la malattia del congiunto. Secondo la difesa le norme previste dagli artt. 2047 e 2048 c.c. non possono essere interpretate a fini civili nel senso che siano applicabili solo a coloro che hanno l'obbligo di sorvegliare gli incapaci, i minori non emancipati e le persone coabitanti soggette a tutela, dovendosi privilegiare a tali fini il dato sostanziale rispetto a quello formale. Le imputate hanno anche violato le leggi sulle armi, essendo assurdo quanto affermato dai giudici di merito circa il fatto che le due donne non potessero rendersi conto della presenza di armi micidiali a disposizione del loro congiunto, tanto più che l'appartamento dello Sp. non era ammobiliato, dovendosi da ciò desumere che convivesse con la madre e con la sorella. La responsabilità delle imputate per non avere chiesto l'intervento di qualsiasi struttura sanitaria risulta per tabulas e le argomentazioni svolte nella sentenza di merito sono illogiche nella parte in cui hanno ritenuto inesistente uno specifico obbligo di intervento in capo ai congiunti;


- violazione di legge e mancanza di motivazione sulla diversa formula assolutoria richiesta con i motivi di appello, non avendo i giudici di merito esaminato la richiesta di assolvere con la diversa formula "che il fatto non costituisce reato";


- motivazione illogica e contraddittoria nella parte in cui ha assolto le imputate dal reato di cui al capo A) dell'imputazione pur avendo riconosciuto che la sorella ha aiutato il fratello a procurarsi le armi e queste erano sotto gli occhi di tutti coloro che vivevano nel palazzo.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. E' rilevata l'inammissibilità del primo motivo di ricorso, in cui si chiede che la condotta delle imputate sia qualificata ai sensi degli artt. 110 e 116 c.p. in termini di concorso nelle condotte delittuose ascrivibili ad Sp.An., in difetto di correlazione con l'ipotesi accusatoria, che descrive autonome condotte di omicidio e lesioni colposi, e con le questioni sviluppate su impulso delle stesse parti civili nel contraddittorio nelle fasi di merito (sul tema del difetto di correlazione tra accusa e sentenza anche ai soli effetti civili la Corte si è di recente pronunciata in Sez. 6, n. 2979 del 15/01/2019, Mauro, Rv. 274931).


2. Con particolare riferimento al tema della responsabilità delle imputate quali concorrenti a titolo colposo nel reato posto in essere da Sp.An., i motivi secondo e terzo sono ugualmente inammissibili perché generici, in quanto non si confrontano con l'articolato sviluppo argomentativo presente nella sentenza di primo grado, come richiamata dalla Corte territoriale, nonché nelle pagine 9-19 della sentenza impugnata.


2.1. Prendendo le mosse dal rilievo che la condotta contestata alle imputate al capo B) fosse di natura omissiva, i giudici hanno motivatamente escluso la sussistenza di un obbligo giuridico di impedire l'evento tale da collegare causalmente agli omicidi e alle lesioni, secondo il dettato dell'art. 40 c.p., comma 2, l'inerzia di Bu.An. e S.A., intesa quale possibile fattore causale autonomo mediato dal delitto commesso dal terzo, soggetto maggiorenne non sottoposto formalmente a limitazioni di capacità e a limitazioni dell'agire, né a controllo o sorveglianza da parte di terzi.


2.2. I giudici hanno escluso altresì che si sia raggiunta la prova di condotte negligenti rimproverabili alle imputate, sia per essere emerso dalla perizia espletata come la grave patologia da cui era affetto il congiunto non fosse assolutamente riconoscibile dall'uomo comune, sia per l'assenza di prova che le donne avessero conoscenza della presenza di congegni esplosivi nell'edificio o che tale presenza fosse da loro conoscibile, sia per l'assenza di prova che le stesse fossero consapevoli della situazione di pericolo derivante dalla grave patologia da cui risultava affetto il loro congiunto, soggetto ultracinquantenne formalmente non interdetto né inabilitato e non convivente con le stesse, derivandone la non prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento sulla base di una valutazione ex ante. In particolare, nel ricorso non è presente alcun confronto con l'assunto secondo il quale non è stata raggiunta la prova che lo Sp. avesse manifestato in presenza delle donne gravi segni e sintomi della patologia psichiatrica da cui era affetto.


2.3. Con specifico riferimento alla questione di diritto inerente alla configurabilità nell'ordinamento del concorso colposo nel delitto doloso e al contrasto giurisprudenziale la cui soluzione la difesa sollecita sia rimessa alle Sezioni Unite, va precisato che, contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, i giudici di merito non hanno assolto le imputate per l'esclusivo motivo che non sia astrattamente configurabile il concorso colposo nel delitto doloso, ma hanno svolto, come detto, ampia disamina in ordine alla rimproverabilità soggettiva degli eventi alle stesse, giungendo a conclusioni negative sul punto. La questione risulterebbe, quindi, del tutto ininfluente sulla decisione, posto che i giudici di merito hanno motivatamente escluso la sussistenza di qualsivoglia profilo di colpa a carico delle imputate.


3. Il tema sviluppato nel quarto motivo di ricorso, secondo il quale agli effetti civili il giudizio circa l'obbligo giuridico di agire si atteggia in termini sostanziali imponendo una lettura meno formalistica dell'obbligo di sorveglianza previsto dagli artt. 2047-2048 c.c. rispetto ai criteri di valutazione della responsabilità penale, non è fondatamente proposto.


3.1. Occorre ricordare che la categoria dogmatica della incapacità d'intendere e di volere non è interamente sovrapponibile all'incapacità di agire, totale o parziale, che secondo l'ordinamento è riferibile al minorenne, all'interdetto o all'inabilitato nonché, in relazione al contenuto del decreto del giudice tutelare, al beneficiario di amministrazione di sostegno.


Rappresentano, infatti, altrettante ipotesi di incapacità d'intendere e di volere quelle forme di incapacità naturale che, ancorché non formalmente riconducibili alla minore età o allo status di interdetto o inabilitato o beneficiario di amministrazione di sostegno, assumono rilievo per l'ordinamento giuridico, tanto agli effetti civili (art. 428 c.c.) quanto agli effetti penali (art. 85 c.p., ss.).


3.2. Esclusa nel caso concreto, per quanto detto e secondo la stessa impostazione accusatoria, l'ipotesi di condotte astrattamente riconducibili alle figure del c.d. autore mediato (art. 111 c.p.) o alle ipotesi aggravate di concorso di persone nel reato (art. 112 c.p.), la questione posta dalla difesa inerisce al tema della responsabilità penale colposa, quale ineludibile presupposto logico-giuridico del diritto della parte civile al risarcimento del danno vantato in questa sede, di coloro sui quali grava l'obbligo di sorvegliare le persone incapaci di intendere e di volere. Tale responsabilità ha fondamento giuridico nelle disposizioni previste dagli artt. 2047-2048 c.c., delle quali la difesa invoca un'interpretazione meno "formalistica" in ragione del limitato giudizio, agli effetti civili, demandato al giudice penale.


3.3. La censura non può trovare accoglimento. In primo luogo, in quanto la pronuncia impugnata ha correttamente escluso che il caso in esame possa farsi rientrare nella previsione dell'art. 2048 c.c., essendovi nell'ordinamento una specifica norma che concerne il danno cagionato dalla persona incapace d'intendere o di volere ancorché non minorenne né interdetta o inabilitata. Il giudice di appello ha, in secondo luogo, svolto una compiuta e coerente disamina dell'obbligo di sorveglianza quale presupposto applicativo dell'art. 2047 c.c., pervenendo ad escluderne la configurabilità a carico delle congiunte non conviventi dello Sp., in linea con il consolidato orientamento delle sezioni civili della Corte di Cassazione, secondo il quale il dovere di sorveglianza di un incapace, quale fonte di responsabilità per il danno cagionato dall'incapace medesimo, ai sensi dell'art. 2047 c.c., comma 1, può essere l'effetto, oltre che di un vincolo giuridico, anche di una scelta liberamente compiuta da colui che assuma spontaneamente il compito di prevenire od impedire che il comportamento di questo possa arrecare ad altri nocumento, accogliendo l'incapace nella sua sfera personale e familiare. La sentenza e', dunque, anche sotto tale profilo e ai soli effetti civili, rispettosa del seguente principio: "Risponde, ai sensi dell'art. 2047 c.c., comma 1, dei danni cagionati dall'incapace maggiorenne non interdetto colui che abbia liberamente scelto di accogliere l'incapace nella propria sfera personale, convivendo con esso ed assumendone spontaneamente la sorveglianza" (Sez.3, n. 1321 del 26/01/2016, La Rocca, Rv. 638648; Sez. 3, n. 5306 del 01/06/1994, Barone, Rv. 486834).


Si tratta di principio peraltro parallelamente consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione penale, secondo la quale, pur essendo ammesso che la posizione di garanzia abbia la sua fonte in una norma di natura privatistica, anche non scritta, e finanche in una situazione di fatto, è pur sempre necessario che in quest'ultima ipotesi il soggetto al quale si imputa la condotta omissiva abbia compiuto un atto di volontaria determinazione indirizzato ad assumere su di sé l'obbligo di controllo o di protezione, quindi il dovere d'intervenire (Sez. 4, n. 19558 del 14/01/2021, Mussano, Rv. 281171; Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Molfese, Rv. 276292; Sez. 4, n. 34975 del 29/01/2016, Biz, Rv. 267539; Sez.4 n. 16761 del 11/03/2010, Catalano, in motivazione).


3.4. Nel caso in esame è stata, quindi, esclusa l'operatività nel processo penale dei criteri d'imputazione della responsabilità civile previsti dalle norme invocate, non ravvisandosi quella posizione di garanzia che, tanto secondo la regola posta dall'art. 40 c.p., comma 2, quanto secondo la regola posta dall'art. 2047 c.c., costituisce presupposto indefettibile dell'affermazione di responsabilità per il fatto dell'incapace.


4. Con riguardo, infine, alle doglianze inerenti a vizi della motivazione, peraltro tutte formulate genericamente, si tratta di censure che non superano il vaglio di ammissibilità in quanto meramente reiterative di doglianze già sottoposte all'esame della Corte di appello e adeguatamente dalla stessa vagliate, esaminate e confutate con argomentazioni analitiche, logicamente coerenti, complete. Per altro verso, censurando la motivazione, il ricorso mira ad ottenere dalla Corte di legittimità una inammissibile nuova valutazione dei fatti, già compiutamente esaminati nelle fasi di merito a ciò deputate. Deve, in primo luogo, considerarsi che, se il motivo di ricorso, come nel caso in esame, si confronta solo genericamente o parzialmente con la motivazione del provvedimento impugnato, per ciò solo si destina all'inammissibilità, venendo meno in radice l'unica funzione per la quale è previsto e ammesso (la critica argomentata al provvedimento), posto che con tale riproduzione il provvedimento ora formalmente impugnato, lungi dall'essere destinatario di specifica critica argomentata, è di fatto del tutto ignorato (ex plurimis, Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv. 276970; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260608). D'altro canto, secondo il costante insegnamento della Corte di Cassazione, esula dai poteri del giudice di legittimità quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione e', in via esclusiva, riservata al giudice di merito, essendo rimessa alla Corte di legittimità la funzione di stabilire se i giudici di merito abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti e se nell'interpretazione delle prove abbiano esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. 1, n. 12496 del 21/09/1999, Guglielmi, Rv. 214567).


Difetta, altresì, il confronto con la motivazione della sentenza impugnata, implicitamente reiettiva dell'istanza di riforma della formula assolutoria, laddove i giudici di merito sono pervenuti ad escludere la posizione di garanzia in capo alle imputate, oltre che la violazione di regole cautelari generiche o specifiche causalmente predisposte per prevenire ed evitare l'altrui condotta delittuosa, così escludendo la stessa materialità del fatto penalmente rilevante.


5. Conclusivamente, i ricorsi devono essere rigettati; segue a norma dell'art. 616 c.p.p. la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 25 maggio 2022.


Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2022





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