La massima
In tema di lesioni personali, l'aggravante dell'abuso di relazioni domestiche ex art. 61, comma primo, n. 11 cod. pen. deve ritenersi assorbita, per specialità, in quella di cui all' art. 576, comma primo, n. 5 cod. pen. , relativa all'aver compiuto il fatto in occasione della commissione del reato di maltrattamenti, dal momento che l'abuso di relazioni di convivenza è elemento costitutivo del reato di cui all' art. 572 cod. pen. (Cassazione penale , sez. VI , 23/01/2019 , n. 16576).
Fonte: Ced Cassazione Penale
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La sentenza
Cassazione penale , sez. VI , 23/01/2019 , n. 16576
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Milano, in data 13 giugno 2018, ha integralmente confermato la sentenza con la quale, il precedente 22 febbraio 2014, il Gup del Tribunale di Lodi, in esito a giudizio celebrato nelle forme del rito abbreviato, aveva condannato alla pena ritenuta di giustizia M.S. in ordine ai reati di violenza sessuale e di lesioni personali aggravate dal vincolo teleologico, per avere egli, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, usato violenza sessuale in danno di tale C.D. e cagionato alla medesima, nell'atto del compimento del precedente reato, lesioni personali guaribili in 30 giorni.
La Corte, nel ricostruire il fatto commesso dal prevenuto, ha ricordato come, nel corso di un incontro amoroso del tutto consensuale, la C., avendo provato un intenso dolore alla zona pelvica, avesse invitato l'imputato a desistere dalla prosecuzione del rapporto; cosa che, invece, il M. non aveva fatto, proseguendo, con vigorosi impulsi, a penetrare con la propria asta virile l'interno della vagina della donna.
Una volta conclusosi il rapporto, avendo l'uomo esaurito il suo slancio vitale, la C. si era resa conto di perdere sangue dalla propria natura.
Dopo che l'uomo si era allontanato dalla abitazione della donna, considerata la perdurante emorragia, costei si era risolta a chiedere soccorso ad una sua amica che, raggiuntala nella abitazione della donna, aveva provveduto ad accompagnarla, avendo chiamato un'ambulanza, presso un ospedale ove le era stata riscontrata una lacerazione del fornice vaginale che, pertanto, il personale sanitario ivi presente provvedeva a suturare.
Sulla base di queste emergenze fattuali la Corte di Milano come detto aveva rigettato l'appello proposto dall'imputato e confermato la sentenza del giudice di primo grado anche con riferimento alla qualificazione del fatto di violenza sessuale non come episodio di minore gravità, ribadendo la natura dolosa e non colposa delle lesioni inferte dall'imputato alla persona offesa e confermando la sussistenza della aggravante del vincolo teleologico di cui all'art. n. 61 c.p., n. 2, fra i due reati ascritti al M..
Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione l'imputato, articolando un solo motivo di censura avente ad oggetto il ritenuto vizio di motivazione della sentenza impugnata, declinato tuttavia sia in relazione alla sussistenza del dolo del reato di lesioni personali, sia in relazione alla sussistenza della aggravante del nesso teleologico fra i reati contestati, sia, infine, al mancato riconoscimento della attenuante della minore gravità del fatto in relazione alla imputazione di cui al capo a) della rubrica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non è fondato e, pertanto, lo stesso deve essere rigettato.
Essendo il motivo di ricorso, seppur formalmente unitario, declinato sotto tre distinti profili, lo stesso deve essere esaminato partitamente, prendendo le mosse dalla censura riguardante la natura dolosa del reato di lesioni personali ascritto al M..
Sul punto la difesa del ricorrente ha, in sostanza, affermato che, diversamente da quanto sostenuto nella sentenza impugnata, l'elemento soggettivo che avrebbe supportato la condotta dell'uomo non poteva essere qualificato come dolo eventuale, così come ritenuto nella sentenza della Corte meneghina, ma come colpa cosciente; sostiene, infatti, il ricorrente che le modalità di sviluppo del rapporto sessuale intercorso fra i due interpreti della presente vicenda, pacificamente sorto in termini di reciproca consensualità, rendono estremamente difficile sostenere che il M. abbia lucidamente previsto la possibilità che si verificasse l'evento lesivo a carico della donna, determinandosi, ciò non ostante, a proseguire nella sua condotta; ha sostenuto la difesa dell'imputato che, onde pervenire alla affermazione della natura dolosa della condotta di quello, sarebbe stato necessario accertare che l'evento lesione personale, cioè la lacerazione vaginale subita dalla C., si sia verificato in un momento successivo e non anteriore alla revoca del consenso da parte della donna alla congiunzione carnale.
La tesi sviluppata dal ricorrente non è condivisibile.
La differenza fra colpa cosciente e dolo eventuale è, per come precisamente e solidamente scolpita dalla giurisprudenza di questa Corte, fin troppo nota per richiedere altro che un brevissimo cenno riepilogativo; si ha, infatti, dolo eventuale nel caso in cui il soggetto si rappresenti la probabilità, intesa come seria possibilità (ancorchè non come certezza), del verificarsi dell'evento quale conseguenza della sua condotta e ne accetti il rischio pur di conseguire il proprio obbiettivo decidendo di agire comunque (Corte di cassazione, Sezione I penale, 14 settembre 2015, n. 36949; Corte di cassazione, Sezione II penale, 16 ottobre 2014, n. 43348), mentre ci si trova di fronte alla colpa cosciente, o con previsione, quando l'agente prevede in concreto che la sua condotta possa cagionare l'evento ma ha il convincimento di poterlo evitare (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 11 giugno 2014, n. 24612).
Come è stato di recente compendiato da questa Corte, onde svolgere la diagnosi differenziale fra l'una e l'altra figura - diagnosi non sempre agevole nella prassi, pur a dispetto della consolidata e netta distinzione ontologica fra le due ipotesi - sono stati individuati dalla giurisprudenza una serie di indicatori "sentinella", per mutuare una terminologia ben nota nella semeiotica medica, la cui presenza svolge un significativo ruolo nella operazione volta a segnalare la presenza dell'una ovvero dell'altra fattispecie; si è, infatti, osservato che per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa.
A tal fine l'indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'iter e l'esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori "sentinella" quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente; c) la durata e la ripetizione dell'azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell'evento; g) le conseguenze negative anche per l'autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione nonchè la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (Corte di cassazione, Sezione IV penale 30 marzo 2018, n. 14663).
Ciò posto e chiarito che i predetti indicatori svolgono ciascuno in autonomia il loro ruolo di "segnale" della presenza del dolo eventuale, potendo, in altre parole, questo essere ravvisato non solamente allorchè tutti i predetti segnali allertino l'interprete in relazione alla sussistenza di un determinato atteggiamento soggettivo dell'agente, ma anche in presenza di uno, o di taluno soltanto, di essi, laddove la pregnanza semantica dell'indicatore in questione induca con sicurezza l'interprete a privilegiare una visione ermeneutica dell'episodio sottoposto alla sua attenzione rispetto ad un'altra, si rileva che, quanto al caso di specie, la complessiva valutazione della condotta del M. ha correttamente indotto la Corte ambrosiana a considerare sorretto dall'elemento soggettivo del dolo, sia pure nella sua forma meno intensa del dolo eventuale, il suo agire.
E', infatti, indubbio che il prevenuto - pur avvisato dalla C. che il rapporto sessuale in corso fra i due, nato quale reciproco e volontario scambio di piacere tra i medesimi, aveva improvvisamente virato, per ciò che attiene alla posizione della donna, in una ingravescente sensazione di dolore, tanto che la stessa aveva invitato il prevenuto a desistere dal proseguirlo - aveva, invece, insistito nella sua condotta, non dandosi, evidentemente carico, pur di conseguire la propria soddisfazione corporea, della inflizione di una sensazione dolorosa alla persona offesa, la quale aveva, peraltro, in tale modo indubbiamente revocato il proprio consenso alla sua congiunzione carnale con l'imputato.
Appare, pertanto, la sicura sussistenza della presenza di molteplici degli indicatori propri della sussistenza del dolo eventuale; infatti il M., sordo alle richiesta della persona offesa ed ai sui lamenti per il dolore patito, ha inteso proseguire nella propria condotta, atta indubbiamente a cagionare una lesione alla donna (di cui il dolore lamentato era l'epifenomeno a livello sensoriale), in tal senso palesemente allontanandosi dalla condotta doverosa, che gli avrebbe imposto di astenersi dal proseguire nel proprio atteggiamento, da lui prolungato, invece, sino al naturale exitus a latere viri del rapporto sessuale, nella evidente consapevolezza delle probabili conseguenze collaterali che esso avrebbe potuto comportare, avendo la C. rappresentato chiaramente la intensa sofferenza fisica che la stessa a causa del rapporto sessuale stata provando, indubbio fattore denunziante la lesività dello stesso per la donna, in assenza di fattori che avrebbero potuto far pensare a conseguenze fisiche della condotta in danno dell'agente, in un contesto, come già evidenziato, caratterizzato dalla complessiva illiceità della condotta del M., il quale stava, successivamente all'invito della donna a desistere dal rapporto sessuale, di fatto abusando di lei.
Tutti i descritti elementi cooperano perciò al fine di porre in evidenza che il prevenuto, lungi dall'avere previsto le possibili conseguenze a livello di integrità fisica della donna dalla propria condotta, ma avendo la sicura convinzione che queste non si sarebbero verificate, ha, viceversa, ben considerato che le stesse potessero avvenire ma, disinteressandosi di tale assai probabile evento, ha inteso proseguire nella propria condotta delittuosa volendo prioritariamente conseguire il proprio piacere sessuale, anche a costo di cagionare alla donna le lesioni da questa riportate.
Priva di una concreta rilevanza logica e giuridica è il rilievo in ordine alla natura meramente colposa della condotta dell'agente sino al momento in cui la donna ha lamentato il dolore fisico a lei derivante dalla congiunzione carnale, considerato questo quale momento rilevante ai fini della consumazione del reato.
Invero, sebbene non possa escludersi che sino a quel momento l'atteggiamento psicologico del prevenuto potesse non essere riconducibile ad una forma di dolo - diretto od eventuale poco importa - non può non considerarsi che, successivamente alle lamentele della donna per l'insorgenza del dolore, il M., secondo quanto riportato in punto di fatto nella sentenza impugnata, in una sorta di ascendente e violenta climax comportamentale, ha proseguito nella sua condotta lesiva, come detto ora indubbiamente caratterizzata da un ben chiaro e consapevole atteggiamento della volontà, aggravando le conseguenza della lesione inferta, sino a cagionare la lesione vaginale riscontrata a carico della donna.
Ciò posto osserva la Corte che laddove una condotta criminosa abbia un, sia pur breve, suo sviluppo diacronico e, di conseguenza, nel corso di tale sviluppo la lesione del bene interesse tutelato si aggravi così come può avvenire, per rimanere nel caso suggerito dalla presente fattispecie, laddove l'approfondirsi della lesione personale comporti una più lunga durata della malattia che ne è la conseguenza, l'elemento soggettivo rilevante ai fini della qualificazione del reato commesso è, ove ad una iniziale condizione di colpa si sostituisca un atteggiamento doloso della volontà, sarà quest'ultimo, poco importando che la condotta sia inizialmente sorta per negligenza, imperizia o imprudenza etc., laddove la stessa sia poi stata proseguita in attuazione di un moto della consapevole volontà del soggetto agente.
Posto che nella presente situazione non appare ragionevolmente revocabile in dubbio che le pesanti conseguenze fisiche patite dalla donna si siano aggravate a causa della prosecuzione della violenta condotta dell'uomo, poca rilevanza ha il fatto che nel momento in cui la condotta delittuosa sia iniziata, cioè nel momento in cui le lesioni sono insorte, le conseguenze della stessa non rispondevano ad un effettivo volere dell'imputato, posto che, per come sopra dimostrato, è a tale volere che, poi, hanno fatto seguito le conseguenze ultime della sua condotta.
Passando ad esaminare il secondo profilo dell'articolato motivo di impugnazione, afferente alla erronea applicazione normativa che avrebbe determinato la ritenuta sussistenza fra i due reati compiuti dal prevenuto della aggravante del nesso teleologico, intendendosi per questo il legame che unisce la commissione di un determinato reato laddove esso sia eseguito al fine di compierne anche un altro, osserva il Collegio che la censura svolta dal ricorrente, la quale prende lo spunto da un non isolato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in relazione al reato di maltrattamenti in famiglia, non è ravvisabile il nesso teleologico fra il reato in questione e quello di lesioni personali commesso nella esecuzione del precedente, ciò in quanto il nesso teleologico necessario per la sussistenza della suddetta aggravante esige che le azioni esecutive dei due diversi reati che pone in relazione siano distinte. (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 11 febbraio 2016, n. 5738; idem Sezione Vi penale, 26 gennaio 2016, n. 3368; idem Sezione VI penale, 31 maggio 2013, n. 23827).
Ritiene il Collegio che il pur condivisibile principio debba essere soggetto ad una interpretazione restrittiva che, limitandone la applicazione solo ad alcune determinate fattispecie delittuose, lo rende non pertinente rispetto al caso di specie.
Infatti, la non riconducibilità al legame rilevante ai sensi di cui all'art. 61 c.p., n. 2, del reato di lesioni, peraltro lievi secondo la casistica di cui ai precedenti sopra ricordati, si giustifica in quanto il reato in questione è, in sostanza, lo strumento attraverso il quale si materializza, stante la ripetitività della condotta posta in essere, il reato di maltrattamenti in famiglia; come è stato, infatti, rilevato in una delle sentenze le quali hanno escluso la possibilità di riscontrare il nesso teleologico ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 2, c.p. fra il reato di lesioni, in quel caso addirittura lievissime, ed i maltrattamenti in famiglia, la ragione di tale esclusione è riconducibile al fatto che la condotta di lesioni "costituisce accertato momento del reato di maltrattamenti" (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 11 febbraio 2016, n. 5738).
In altra occasione la Corte, preso atto, quanto alla aggravante del nesso teleologico della sua natura di circostanza soggettiva, la cui previsione intende evidenziare la maggiore capacità a delinquere del reo che, per attuare il suo intento criminoso, si avvale di un ulteriore mezzo illecito, ha altresì osservato che, nel reato di maltrattamenti in famiglia l'elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, vale a dire dalla coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuativo e abituale, elemento costitutivo delle quali sono, di frequente anche atti blandamente lesivi della integrità fisica.
Come è stato osservato si tratta di dolo - per così dire - "progressivo", nel senso che l'agente assume coscienza e volontà della propria condotta illecita in modo graduale: una volta cioè che la reiterazione degli atti lesivi assume una certa consistenza, l'autore degli stessi prende coscienza che il persistere in tale condotta determina uno stato di ingiusta sofferenza nel soggetto passivo e, nonostante ciò, non muta la sua maniera di rapportarsi al medesimo, con l'effetto che il dolo finisce con l'atteggiarsi come elemento unificatore della pluralità dei singoli atti vessatori (dolo unitario).
In ciascuno di questi ultimi, quindi, è ben difficile apprezzare, in mancanza di specifici elementi di segno contrario, l'aggravante soggettiva del nesso teleologico con il reato-fine di maltrattamenti (Corte di cassazione Sezione VI penale 7 marzo 2011, n. 8892).
Esula del tutto dà questa logica, invece, la presente fattispecie, nella quale il reato di lesioni personali, lungi dal costituire in elemento tipico atto ad integrare, unitamente ad altre eventuali condotte, in peculiare momento del reato di violenza sessuale, se ne distingue nettamente per modalità esecutive e per bene interesse tutelato, costituendo semplicemente, se del caso, un possibile strumento finalizzato alla commissione dell'altro, diverso reato, ancorchè quest'ultimo sia stato sostanzialmente posto in essere nella contestualità con il precedente.
In tale senso, d'altra parte, questa Corte già si è espressa, con riferimento ad altre possibili condotte delittuose contestualmente poste in essere onde realizzarne della ulteriori, riconoscendo quanto alle prime, stante la autonomia ontologica, fenomenica e di struttura fra l'una e l'altra fattispecie, la sussistenza della aggravante in questione (cfr. infatti, Corte di cassazione, Sezione V penale, 14 agosto 2013, n. 35104, fattispecie nella quale è stata ritenuta ravvisabile l'ipotesi di falso aggravato dal nesso teleologico con il delitto di truffa realizzata tramite l'uso dell'atto in questione).
Con riferimento, infine, al terzo versante del complesso motivo di impugnazione, avente quale suo oggetto la mancata qualificazione del fatto commesso entro i confini della ipotesi attenuata della minore gravità, ritiene il Collegio che anche questo aspetto della articolata doglianza del ricorrente non abbia pregio.
Posto, infatti, che la Corte territoriale ha ritenuto che il fatto non possa essere qualificato fra quelli attenuati sotto molteplici aspetti, si osserva che sul punto la motivazione del giudice del gravame sia del tutto pertinente; sulla base della costante giurisprudenza di questa Corte si è, infatti, ritenuto che la valutazione che il giudice del merito deve compiere onde verificare se il fatto di violenza sessuale commesso possa essere ricompreso fra quelli di minore gravità è una valutazione che impone una complessiva disamina sia dell'episodio storico-naturalistico verificatosi, scrutinato nei suoi singoli elementi, sia della lesione inferta alla libertà sessuale del soggetto passivo del reato e dell'intensità del danno, anche psichico, da questa patito per effetto di quello (ex multis: Corte di cassazione, Sezione III penale, 2 luglio 2018, n. 29618).
Nel caso presente la Corte di Milano ha rilevato per un verso che è fattore irrilevante il tipo di relazione esistente fra le parti prima del fatto costituente reato, dovendo semmai ritenersi, si aggiunge, che l'eventuale esistenza di pregressi rapporti amichevoli od affettivi, anche arricchiti, se del caso, da precedenti relazioni aventi una qualche valenza sessuale fra i soggetti implicati nel fatto delittuoso, non è certamente fattore che mitiga la gravità della condotta successivamente posta in essere, semmai approfondendo la lesione derivante alla parte offesa anche dal tradimento del precedente legame, e, per altro verso, ha segnalato come la severità dei danni fisici patiti dalla parte offesa, dopo che la stessa aveva espressamente evidenziato all'imputato, il quale si è del tutto disinteressato di ciò, la propria sofferenza fisica cagionata dall'atto sessuale e, pertanto, l'atteggiamento gravemente ed inumanamente indifferente della altrui sofferenza tenuto in tal caso dall'imputato, il quale, si ricorda, ha, in sostanza, abbandonato la donna pur sanguinante dopo il congresso carnale intervenuto fra i due, pongono in luce la plausibilità del giudizio di estraneità del fatto commesso dal M. dal novero delle condotte delittuose di minore gravità.
In definitiva il ricorso dell'imputato deve essere rigettato e lo stesso deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 19 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2019