La Suprema Corte (Cassazione civile sez. II, 28/11/2023, n.33011) ha chiarito che l'attribuzione da parte del testatore del solo diritto di usufrutto non conferisce al beneficiario la qualità di erede, ma piuttosto quella di legatario.
Questo principio è confermato da una consolidata giurisprudenza che interpreta tale attribuzione come un legato a titolo particolare, anziché come un'eredità a titolo universale.
In sostanza, quando un testatore assegna a un beneficiario il solo usufrutto di determinati beni, senza conferirgli la piena proprietà degli stessi, il beneficiario non succede "in universum ius" del defunto e quindi non acquisisce la qualità di erede.
Nello specifico, si tratta di un legato, e il legatario non subentra nei rapporti giuridici del defunto in modo equivalente a un erede.
La sua responsabilità per i debiti del defunto deriva da meccanismi differenti da quelli che riguardano gli eredi.
Questa interpretazione trova fondamento nel principio di conservazione del testamento e nella necessità di interpretare le disposizioni testamentarie in conformità con la volontà effettiva del testatore.
Il giudice deve quindi esaminare attentamente le disposizioni testamentarie per determinare se il testatore abbia inteso attribuire singoli beni specifici o se abbia voluto considerarli come parte della sua universalità patrimoniale.
Quando un testatore attribuisce il solo usufrutto, il beneficiario non diventa automaticamente un coerede e non è necessario che gli altri eredi accettino il beneficio.
Invece, il legatario deve seguire le disposizioni testamentarie inerenti ai legati, e l'accettazione beneficiata può essere richiesta solo se specificatamente prevista nel testamento.
In conclusione, il principio di diritto qui delineato stabilisce che l'attribuzione del solo usufrutto non conferisce automaticamente la qualità di erede, ma piuttosto quella di legatario, e che l'accettazione beneficiata è richiesta solo se espressamente prevista nel testamento.
La sentenza integrale
RAGIONI IN FATTO
1. R.C. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Catania la madre R.A.M., R.G., Ra.Gi., e C.V., deducendo di essere erede legittima del defunto padre R.M., chiedendo disporsi la riduzione delle disposizioni testamentarie di cui al testamento pubblico del 9 agosto 1994, pubblicato in data 25 gennaio 1995.
Alla domanda si opponevano la R. e la C., nonché R.G. che eccepiva anche la mancata preventiva accettazione beneficiata da parte dell'attrice.
Analoga domanda di riduzione era avanzata anche da Ra.Gi..
Interrotto il giudizio per la morte di Ra.Gi. e riassunto lo stesso, riunito il processo ad altri giudizi intentati sempre dall'attrice, la quale nel corso del processo dichiarava di agire anche quale erede del fratello Gi., instando per l'accoglimento della domanda da questi proposta, nel corso dell'istruttoria decedeva la convenuta R., e riassunto il giudizio si costituivano come eredi di quest'ultima C.V., R.M. e R.R..
Con la sentenza n. 1803/2016, il Tribunale di Catania rigettava la domanda di riduzione, assumendo che fosse venuta meno la lesione a seguito della morte della R., che era stata istituita usufruttuaria del patrimonio relitto, con esclusione dei beni invece legati all'altro convenuto R.G.. Ciò aveva determinato il consolidamento dell'usufrutto in capo agli attori che erano stati istituiti eredi nella nuda proprietà. Assumeva poi il Tribunale che nella fattispecie trovava applicazione l'istituto della cautela sociniana, e che pertanto i legittimari avrebbero dovuto abbandonare la nuda proprietà per la parte eccedente la legittima, così che in assenza di tale abbandono non era dato agire in riduzione.
Avverso tale sentenza ha proposto appello R.C., cui hanno resistito le eredi della R..
Ha resistito anche R.G. proponendo a sua volta appello incidentale.
La Corte d'Appello nel corso del giudizio invitava le parti a prendere posizione in merito all'applicabilità alla fattispecie della previsione di cui all'art. 564 c.c., e con la sentenza n. 555 del 9 marzo 2018 ha rigettato l'appello principale, ed in accoglimento dell'appello incidentale ha condannato R.C. al pagamento delle spese del giudizio di primo grado, oltre che al rimborso delle spese del grado di appello.
La sentenza osservava che non poteva reputarsi che nella sentenza del Tribunale vi fosse un'affermazione avente efficacia di giudicato circa la qualità di eredi da attribuire alla R. ed a R.G. in quanto il passaggio della sentenza di primo grado che conteneva tale inciso costituiva una mera elencazione dei successibili, ma senza alcuna precisa volontà di annettere alla stessa anche il riconoscimento con efficacia vincolante della qualità di eredi. Ne' ostava alla possibilità di applicare la condizione di ammissibilità dell'art. 564 c.c., la circostanza che la domanda avesse rigettato nel merito la domanda di riduzione, senza occuparsi del profilo in esame, e ciò in quanto il rispetto della condizione dell'accettazione beneficiata costituisce un accertamento devoluto al giudice di merito anche d'ufficio, ed esperibile per la prima volta anche in appello, ove sia investito della valutazione circa la fondatezza della domanda di riduzione.
Ciò premesso, osservava che la disposizione testamentaria in favore della moglie del de cuius, che prevedeva l'assegnazione dell'usufrutto generale sui suoi beni (con eccezione di quelli lasciati al figlio G.), costituiva un legato, senza che ostasse a tale conclusione la circostanza che alla coniuge fossero stati attribuiti anche alcuni beni in piena proprietà, non potendosi intendere tale attribuzione come assegnazione in funzione di quota, ostando a tale esito anche il fatto che il testamento aveva espressamente istituito eredi in pari quota i figli Gi. e C..
Costituiva del pari un legato l'attribuzione di alcuni immobili al figlio G., essendo tale qualificazione incontestata nel corso del giudizio, ed emergendo anche dal tenore letterale delle previsioni testamentarie, nelle quali era rappresentato come un legato tacitativo della quota di legittima del legatario.
Ne scaturiva che, essendo stata esercitata l'azione di riduzione nei confronti di soggetti non chiamati come coeredi, l'azione stessa doveva essere preceduta necessariamente dall'accettazione con beneficio di inventario, che nella specie era carente.
Aggiungeva poi la Corte d'Appello che in ogni caso l'azione di riduzione sarebbe stata inammissibile, in ragione della sussunzione della fattispecie nella previsione di cui all'art. 550 c.c. Poiché le assegnazioni in favore della moglie eccedevano il valore della porzione disponibile, i legittimari avrebbero dovuto far ricorso al rimedio dettato dall'art. 550 c.c., e precisamente scegliere tra la piena proprietà della loro quota (con abbandono della nuda proprietà della porzione disponibile) ovvero l'esecuzione delle disposizioni testamentarie, essendo quindi esclusa la possibilità di far ricorso all'azione di riduzione.
L'inammissibilità dell'azione di riduzione rendeva privo di interesse il motivo con il quale si contestava la stima da parte del CTU dei valori dei beni oggetto della riunione fittizia.
Del pari inammissibile era la domanda volta ad ottenere i frutti dei beni tratti dal convenuto G. su di un bene relitto, atteso che la domanda de qua presupponeva a monte l'ammissibilità dell'azione di riduzione,
Nell'esaminare l'appello incidentale di R.G., la sentenza lo riteneva fondato, reputando ingiustificata la compensazione delle spese da parte del giudice di primo grado, che non aveva tenuto conto della prevalente soccombenza dell'attrice.
Nel liquidare le spese, la sentenza riteneva applicabili le previsioni di cui al D.M. n. 55 del 2014, tenuto conto del valore della massa attiva, e quindi facendo applicazione dello scaglione di valore tra 2 e 4 milioni di Euro.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso R.C. sulla base di quattro motivi, illustrati da memorie.
R.G. ha proposto ricorso incidentale affidato a due motivi, di cui il secondo condizionato all'accoglimento del ricorso principale, ed ha a sua volta depositato memorie.
C.V., R.M. e R.R. hanno resistito con controricorso, illustrato da memorie.
R.C. ha resistito con autonomo controricorso al ricorso incidentale.
RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente deve essere disattesa l'eccezione di inammissibilità del ricorso principale sollevata da R.G. sul presupposto che sarebbe passata in giudicato l'affermazione del giudice di primo grado circa l'infondatezza nel merito della domanda di riduzione.
Rileva a tal fine la considerazione che tale conclusione era stata oggetto di critica proprio con i motivi di appello, ma che il giudice di secondo grado, ritenendosi investito a monte della valutazione della fondatezza della domanda di riduzione, ha rigettato l'appello, ma sulla base di una diversa motivazione, opinando che in apicibus sussistesse la circostanza ostativa alla verifica nel merito della bontà della domanda di riduzione, rappresentata dal fatto che, essendo stata esercitata l'azione di riduzione nei confronti di soggetti non chiamati come coeredi, era però necessario far precedere l'azione riproposta in appello dalla preventiva accettazione con beneficio di inventario.
La sentenza d'appello ha, quindi, ritenuto, come si ricava anche dalla valutazione di sostanziale assorbimento delle altre contestazioni che investivano la correttezza della stima dei beni oggetto della riunione fittizia, che la valutazione nel merito fosse ancor prima preclusa dall'inammissibilità della domanda di riduzione, così che, essendo il ricorso volto a contrastare proprio tale conclusione, non può reputarsi che abbia efficacia ostativa la valutazione di infondatezza nel merito del Tribunale, da reputarsi superata per effetto della diversa ratio che sorregge la decisione di appello.
Tale considerazione dà contezza anche dell'insussistenza delle ragioni di inammissibilità del ricorso riportate sub II e III del ricorso incidentale.
Va, poi, disattesa anche l'eccezione di inammissibilità del ricorso per la sua carente formulazione, ritenendo il Collegio che lo stesso si conformi ai requisiti di forma e sostanza dettati dalle norme di rito e che sia altresì satisfattivo dei requisiti (peraltro privi di sanzione sul piano processuale) dettati dal Protocollo intervenuto tra il Primo Presidente della Corte di Cassazione ed il Presidente del CNF.
Va, infine, disattesa anche l'eccezione di improcedibilità del ricorso sul presupposto che non sarebbe stata prodotta la relata di notifica della sentenza impugnata, notifica avvenuta a mezzo PEC, rilevando a tal fine che essendo stato il ricorso notificato in data anteriore all'introduzione del processo telematico anche dinanzi al giudice di legittimità, le modalità di documentazione dell'avvenuta notifica telematica della sentenza risultano satisfattive dei requisiti formali suscettibili di trovare applicazione in un ambiente ancora analogico, come appunto illustrati da Cass. S.U. n. 8312/2019.
Questa Corte ha poi di recente ribadito che la prova dell'avvenuta notifica in modalità telematica della sentenza può essere data mediante il deposito delle copie informatiche, in formato "pdf", delle ricevute di accettazione e consegna della PEC, corredate di attestazione di conformità agli originali informatici, non occorrendo il deposito dei relativi file in formato "-.eml" o "-.msg" (necessario, invece, al diverso fine della prova dell'avvenuta notificazione telematica degli atti introduttivi del giudizio), posto che la relata di notifica della sentenza ai fini di cui all'art. 325 c.p.c. è atto esterno al giudizio che, come qualsiasi atto digitale, può essere stampato o salvato e attestato conforme all'originale dal difensore (Cass. N. 25686/2023). Infine va evidenziato che in prossimità dell'udienza la difesa della ricorrente principale ha anche depositato il file in formato.eml relativo alla notifica della sentenza impugnato, e ciò nel rispetto anche del principio affermato dal precedente delle Sezioni Unite del 2019 che permettono che l'attestazione di conformità (ovvero la produzione del messaggio in formato digitale), possa avvenire in prossimità dell'udienza).
2. Il primo motivo di ricorso denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza e del procedimento in relazione all'art. 324 c.p.c., art. 12 preleggi e art. 2909 c.c., per violazione del giudicato interno ed interpretazione contra legem dei relativi capi della sentenza di primo grado, non impugnati e passati in giudicato, quanto alla qualificazione come eredi di R.G. e R.A.M..
Si ricorda che a pag. 4 della sentenza del Tribunale si era specificato che eredi del defunto R.M. erano il coniuge superstite ed i tre figli, affermazione questa che non è stata oggetto di impugnazione e che, quindi, per essere passata in cosa giudicata era vincolante anche per la Corte d'Appello, che ha invece fatto applicazione dell'art. 564 c.c., disattendendo la stessa.
Si tratta di un capo autonomo della sentenza appellata che non poteva essere oggetto di rivalutazione, così che l'interpretazione che è stata data sul punto dalla Corte d'Appello è evidentemente contra legem.
Ne' è contraddittorio che sia stata attribuita a R.G. la qualità di legatario, ben potendo cumularsi nella medesima persona la qualità di erede e di legatario.
Inoltre, la qualifica di eredi dei congiunti è coerente con il fatto che in primo grado la domanda di riduzione non fosse stata dichiarata inammissibile.
Il motivo è infondato.
Al fine di una migliore comprensione anche delle questioni che pongono i successivi motivi, occorre ricordare che la vicenda trae origine dalla successione di R.M., il cui testamento pubblico, recante la data del 9 agosto 1994, prevedeva l'attribuzione alla moglie, R.A.M., dell'usufrutto vita natural durante di tutto il suo patrimonio (immobili, mobili, gioielli, argenteria, titoli di qualsiasi specie e natura, suppellettili, ecc.), nonché la piena proprietà di tutti i crediti, dei titoli, dei mobili, arredi e suppellettili, gioielli e quant'altro si trova nelle case di (Omissis) e di (Omissis) e nel deposito mobili. Al figlio G., a tacitazione dei suoi diritti di legittima, e con l'eventuale eccedenza sulla disponibile, ha assegnato la piena proprietà dell'intero palazzo di (Omissis) e di quello di (Omissis), nonché il tratto di terreno su cui esisteva la fungaia, in (Omissis).
A favore dei figli C. e Gi. ha attribuito per il periodo successivo al decesso dell'usufruttuaria, il diritto di abitazione nei locali di cui gli stessi già disponevano nel palazzo di (Omissis), aggiungendo, a chiusura del testamento, che nel resto delle sostanze erano istituti eredi in parti eguali i figli Gi. e C..
Il giudice di appello, ritenendo che le attribuzioni testamentarie effettuate in favore del coniuge e del figlio G. non erano idonee ad attribuire loro la qualità di eredi, ha posto la questione relativa alla carenza della condizione rappresentata dall'accettazione beneficiata ai fini dell'ammissibilità dell'azione di riduzione, e, confermando quanto al dispositivo l'esito del giudizio di primo grado, ha reputato che la domanda di riduzione, coltivata anche in appello si rivelava inammissibile.
Il motivo in esame mira a contrastare questa conclusione sul presupposto che vi sarebbe un passaggio argomentativo della sentenza del Tribunale nella quale la qualità di erede era stata attribuita a tutti i congiunti del defunto, e cioè sia alla moglie che ai tre figli, affermazione che, in assenza di una impugnazione, aveva ormai assunto efficacia di giudicato, non potendo quindi esser posta in discussione dal giudice di appello, pena la violazione di un giudicato interno così formatosi.
La doglianza è però priva di fondamento.
Sul punto va richiamato il costante orientamento di questa Corte secondo cui costituisce capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato anche interno, quello che risolve una questione controversa, avente una propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente; la suddetta autonomia manca non solo nelle mere argomentazioni, ma anche quando si verta in tema di valutazione di un presupposto necessario di fatto che, unitamente ad altri, concorre a formare un capo unico della decisione (Cass. n. 4732/2012; Cass. n. 40276/2021, secondo cui la mancata impugnazione di una o più affermazioni contenute nella sentenza può dare luogo alla formazione del giudicato interno soltanto se le stesse siano configurabili come capi completamente autonomi, risolutivi di questioni controverse che, dotate di propria individualità ed autonomia, integrino una decisione del tutto indipendente, e non anche quando si tratti di mere argomentazioni, oppure della valutazione di presupposti necessari di fatto che, unitamente agli altri, concorrano a formare un capo unico della decisione; Cass. n. 20951/2022).
Come si riscontra dalla lettura della sentenza del Tribunale, il cui testo è riprodotto in ricorso, il passaggio invocato da parte della ricorrente principale non può reputarsi essere un capo munito di una propria autonomia, ed in relazione al quale possa dirsi formata una precisa volontà del giudicante di risolvere una questione con efficacia vincolante nel prosieguo del giudizio.
Risulta, invece, incensurabile la conclusione del giudice di appello che ha sottolineato come il termine "eredi" ivi speso fosse stato impropriamente utilizzato al fine di designare, ancorché in maniera non corretta dal punto di vista giuridico, coloro che erano i successibili ex lege del de cuius, la cui presenza assumeva rilevanza anche ai fini della determinazione delle quote di riserva, oggetto dell'azione di riduzione, e della successiva determinazione della disponibile.
Ciò è chiaramente confermato dal passaggio della motivazione immediatamente successivo, nel quale il Tribunale illustra come sia pervenuto a determinare la quota di legittima vantata dall'attrice e dal fratello, del quale la prima era divenuta erede.
Dopo avere proceduto alle operazioni di riunione fittizia, la soluzione in merito al rigetto della domanda di riduzione risulta sorretta da due rationes, ognuna delle quali prescinde a ben vedere dalla verifica e dalla conferma della qualità di coeredi in capo ai convenuti.
In primo luogo, la sentenza di primo grado ha reputato assorbente la circostanza che nelle more del giudizio fosse deceduta l'usufruttuaria, così che il venir meno del diritto assegnatole per testamento aveva determinato l'espansione della nuda proprietà oggetto invece della disposizione in favore degli attori in riduzione, che in tal modo avevano visto elisa la lesione lamentata (affermazione questa contestata con l'appello, nel quale correttamente si sottolineava come l'accertamento della lesione dovesse essere compiuto alla data di apertura della successione, senza tenere conto degli eventi successivamente verificatisi, idonei a far venir meno l'efficacia della disposizione a titolo di usufrutto asseritamente lesiva), situazione questa che determinava il rigetto della domanda di riduzione senza alcuna necessità di indagare se l'assegnazione in favore della R. fosse tale da farle acquisire o meno la qualità di erede.
Con la seconda ratio ha poi reputato che la vicenda dovesse essere ricondotta nella previsione di cui all'art. 550 c.c., con la conseguenza che il legittimario per conseguire la legittima in piena proprietà, e rendere priva di efficacia la disposizione a titolo di usufrutto eccedente la disponibile, non deve avvalersi dell'azione di riduzione, ma ha la facoltà di abbandonare la nuda proprietà della porzione disponibile, abbandono che nella specie non era intervenuto e che quindi precludeva l'esercizio dell'azione di riduzione.
Anche tale seconda giustificazione addotta a sostegno della pronuncia di rigetto prescinde però da un'indagine circa la qualità di eredi dei convenuti, così che deve reputarsi incensurabile l'affermazione della Corte d'Appello che ha escluso che alla detta enunciazione fosse da assegnare una portata precettiva, essendo piuttosto un mero richiamo all'individuazione dei potenziali legittimari (necessario onde addivenire alla corretta individuazione della quota di riserva), prescindendo del tutto da quello che era stato poi il diverso assetto successorio determinatosi per effetto delle volontà testamentarie.
Manca perciò nel ragionamento della sentenza di primo grado una puntuale argomentazione che possa permettere di annettere all'iniziale qualificazione della moglie e dei figli come eredi del defunto una effettiva assunzione di tale qualità, non potendo quindi rinvenirsi nella decisione anche un'autonoma statuizione idonea ad acquisire efficacia di giudicato.
Ne' può attribuirsi rilievo al fatto che in un capo del dispositivo si riferisce dell'apertura della successione legittima di R.M., con l'assegnazione della qualità di eredi alla R. nonché a R.C. e Gi., trattandosi di statuizioni che non trovano alcun conforto nello sviluppo della motivazione che invece presuppone proprio la permanente efficacia delle disposizioni testamentarie, in relazione ad entrambe le rationes che reggono il rigetto della domanda di riduzione (in quanto il venir meno della lesione per effetto del consolidamento della nuda proprietà presuppone che alla R. fosse stato attribuito solo l'usufrutto, e non anche una quota in piena proprietà, mentre il richiamo all'art. 550 c.c. implica l'effettiva operatività delle disposizioni testamentarie).
Peraltro, e sempre ai fini di completezza della motivazione, trattandosi di questioni che la ricorrente ripropone anche in occasione dei successivi motivi di ricorso, non appare obiettivamente contestabile l'affermazione in punto di diritto sostanziale della Corte d'Appello che ha negato la qualità di eredi in capo ai convenuti R. e R.G., concludendo quindi per l'inammissibilità dell'azione di riduzione per l'assenza della condizione dell'accettazione beneficiata.
Quanto alla posizione della R., come detto beneficiaria dell'usufrutto generale sul patrimonio relitto e della piena proprietà di crediti, titoli, mobili, arredi, suppellettili e gioielli, ritiene il Collegio che debba darsi continuità al più recente orientamento di questa Corte che, nel dare risposta al dibattuto tema della qualificazione giuridica dell'attribuzione per testamento della qualità di usufruttuario generale (tema ampiamente dibattuto anche in dottrina), ha optato per la tesi dell'attribuzione a titolo particolare e precisamente a titolo di legato.
Trattasi di soluzione già sostenuta in passato (cfr. Cass. n. 986/1979, secondo cui l'attribuzione da parte del testatore del solo usufrutto non conferisce al beneficiario la qualità di erede, perché egli non succede in tal caso nell'universum ius del de cuius, così che il coniuge, nominato usufruttuario generale per disposizione testamentaria, non acquista la qualità di erede) e che deve reputarsi assolutamente prevalente nella più recente giurisprudenza che ha inteso superare la contraria affermazione di Cass. n. 13310/2002, allo stato rimasta pressoché isolata.
Infatti, Cass. n. 1557/2010 ha specificamente riaffermato che ove il testatore attribuisca il solo diritto di usufrutto, il beneficiario non succede "in universum ius" del defunto e, pertanto, non acquista la qualità di erede; nei suoi confronti, pertanto, non sussiste litisconsorzio necessario in sede di giudizio di divisione tra coeredi, trovando poi seguito anche in Cass. n. 13868/2018, secondo cui il lascito avente ad oggetto l'usufrutto, generale o pro quota, dell'asse ereditario costituisce legato, poiché l'usufruttuario non subentra in rapporti qualitativamente eguali a quelli del defunto e la sua responsabilità per i debiti deriva dal meccanismo dell'art. 1010 c.c. e non dalla qualità di erede (conf. anche Cass. n. 4435/2009).
Trattasi di esito interpretativo che risulta corrispondente a quello adottato dalla Corte d'Appello che a tal fine ha fatto rinvio ad un proprio precedente, senza che infici la correttezza della soluzione la mancata riproduzione delle motivazioni di quest'ultimo, trattandosi come detto di orientamento ormai assolutamente prevalente nella giurisprudenza di questa Corte.
La correttezza di tale esito non può poi essere posta in discussione per il rilievo che alla R., accanto all'usufrutto generale, era stata assegnata la piena proprietà di alcuni beni, ancorché indicati per categorie e non in maniera specifica, atteso che la Corte d'Appello, ha escluso che tale attribuzione fosse idonea a determinare una institutio ex certa re ex art. 588 c.c..
Va qui ribadito che in materia testamentaria, l'istituzione di beni in quota da parte del testatore impone di accertare, attraverso qualunque mezzo utile per ricostruirne la volontà, ma comunque secondo un'applicazione ermeneutica rigorosa della disposizione di cui all'art. 558 c.c., comma 2 se l'intenzione del testatore sia stata quella di attribuire quei beni e soltanto quelli come beni determinati e singoli ovvero, pur indicandoli nominativamente, di lasciarli quale quota del suo patrimonio, avendosi, nel primo caso, una successione a titolo particolare o legato e, nel secondo, una successione a titolo universale e istituzione di erede, la quale implica che, in seguito ad esame del complesso delle disposizioni testamentarie, resti accertata l'intenzione del testatore di considerare i beni assegnati come quota della universalità del suo patrimonio (Cass. n. 42121/2021).
Cass. n. 2521/2022 ha confermato tale orientamento, ribadendo che nell'interpretazione del testamento, il giudice di merito, mediante un apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se congruamente motivato, deve accertare, in conformità al principio enunciato dall'art. 1362 c.c., applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria, quale sia stata l'effettiva volontà del testatore, valutando congiuntamente l'elemento letterale e quello logico ed in omaggio al canone di conservazione del testamento (Cass. n. 24163/2013; 23278/2013). In particolare, l'assegnazione di beni determinati configura una successione a titolo universale, ove il testatore abbia inteso chiamare l'istituito nell'universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato se egli abbia voluto attribuire singoli ed individuati beni (Cass. n. 23393/2017). Inoltre (cfr. Cass. n. 24163/2013), in tema di distinzione tra erede e legatario, ai sensi dell'art. 588 c.c., l'assegnazione di beni determinati configura una successione a titolo universale ("institutio ex re certa") qualora il testatore abbia inteso chiamare l'istituito nell'universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato se egli abbia voluto attribuire singoli, individuati, beni, così che l'indagine diretta ad accertare se ricorra l'una o l'altra ipotesi si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito e, quindi, incensurabile in cassazione, se congruamente motivato. Nella fattispecie emerge che la sentenza gravata, nel pervenire all'approdo interpretativo qui contrastato, è partita proprio dal tenore letterale delle espressioni usate nell'atto di ultima volontà, sottolineando che anche tenendo conto del differente tenore delle espressioni che prevedevano le attribuzioni fatte in favore della R. ("assegno") da quelle che invece erano state effettuate in favore del figlio G. ("lascio"), doveva attribuirsi efficacia risolutiva in merito al dubbio posto circa la qualificazione delle attribuzioni, la volontà finale del testatore che, evidentemente consapevole della differenza tra la qualità di legatario e quella di erede, aveva riservato quest'ultima solo ai due figli C. e Gi., individuati come tali (ed inizialmente solo per la nuda proprietà) per quanto concerneva i beni.
In tal modo la sentenza impugnata ha offerto una puntuale disamina dei vari elementi, così che quella di parte ricorrente si rivela essere una alternativa ricostruzione delle volontà testamentarie senza però offrire argomenti che consentano di reputare quella privilegiata dal giudice di merito come connotata da assoluta implausibilità o illogicità.
Ne' risulta di ausilio alla tesi di parte ricorrente quanto di recente affermato da Cass. n. 28962/2023, secondo cui, qualora il testatore abbia disposto a titolo particolare di tutti i suoi beni o di una parte eccedente la disponibile, legando al legittimario l'usufrutto universale e la nuda proprietà a un estraneo, il legittimario, privato in tutto o in parte della nuda proprietà della quota riservata, è chiamato ab intestato all'eredità; conseguentemente non si ha una figura di legato tacitativo ai sensi dell'art. 551 c.c., che suppone l'istituzione ex asse di altra o di altre persone, ma ricorre di regola l'ipotesi prevista dall'art. 550 c.c., comma 2, prospettandosi pertanto al legittimario la scelta o di eseguire la disposizione o di abbandonare la disponibile per conseguire la legittima. Infatti, il principio richiamato non può trovare applicazione, atteso che nella fattispecie, accanto all'attribuzione dell'usufrutto, risulta chiaramente attribuita la qualità eredi ai due figli Gi. e C., il che esclude che alla moglie possa attribuirsi la qualità di erede ab intestato.
Risulta quindi incensurabile l'affermazione della Corte d'Appello che ha considerato la R. solo legataria, e ciò sul presupposto che anche i beni attribuiti in piena proprietà costituissero oggetto di attribuzioni a titolo di legato.
Ancor più evidente si palesa la correttezza della soluzione quanto alla qualificazione come legatario di R.G., in quanto, oltre a risultare carente anche per questi una formale istituzione di erede, invece riservata dal de cuius agli altri due figli, prevale a monte l'espressa qualificazione delle assegnazioni quali attribuzioni a titolo di legato tacitativo ex art. 551 c.c., che, in assenza di beni sui quali potesse aprirsi la successione legittima (per chi reputa in ipotesi ammissibile un concorso del beneficiario del legato sostitutivo nella successione legittima), attesa l'onnicomprensività delle previsioni testamentarie, confermano come questi non rientrasse tra i soggetti chiamati come coeredi all'eredità, e che quindi anche nei suoi confronti l'esercizio dell'azione di riduzione doveva esser preceduto dall'accettazione beneficiata.
3. Il secondo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza e del procedimento ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per violazione del giudicato interno, con riferimento all'ammissibilità dell'azione di riduzione.
Si sostiene che la sentenza di primo grado, avendo rigettato la domanda di riduzione, aveva implicitamente risolto in senso favorevole alla tesi della ricorrente anche la questione dell'ammissibilità dell'azione di riduzione in rapporto al dettato dell'art. 564 c.c., e ciò anche in considerazione del fatto che la questione era stata sollevata dai convenuti già nel corso del giudizio dinanzi al Tribunale.
Anche tale motivo è infondato.
Al riguardo va richiamato quanto esposto in occasione della disamina del primo motivo di ricorso quanto alle ragioni che hanno sorretto la decisione di rigetto della domanda di riduzione in primo grado, le quali, lungi dall'essere il frutto di una verifica in concreto dell'esistenza della lesione, appaiono correlate ad una sorta di applicazione del principio della ragione più liquida essendosi individuate delle giustificazioni (consolidamento della nuda proprietà, a seguito della morte della R., e mancato abbandono della quota di nuda proprietà eccedente la legittima), che precludevano a monte la fondatezza dell'azione di riduzione, senza quindi la necessità di verificare se in concreto le disposizioni si fossero effettivamente rivelate lesive della quota di riserva.
Significativo in tal senso appare il passaggio della stessa sentenza di primo grado (richiamato dalla difesa di R.G.), che, a pag. 9, dopo aver esposto le ragioni del rigetto della domanda di riduzione, aggiunge che ciò "... rende superfluo l'esame delle eccezioni sollevate da R.G. in merito alla pretesa infondatezza dell'azione di riduzione nei confronti del legatario".
Tra queste eccezioni, come ribadisce la stessa ricorrente, vi era anche quella relativa alla assenza dell'accettazione beneficiata, così che proprio tale affermazione del giudice di prime cure impone di ritenere che l'eccezione de qua, lungi dall'essere stata decisa, è stata reputata in effetti assorbita, essendovi ben altre ragioni, reputate prevalenti, che consentivano in ogni caso di addivenire al rigetto della domanda proposta.
Ne consegue che in tale contesto restava effettivamente impregiudicata la possibilità per il giudice di appello, cui con i motivi di gravame era stata nuovamente sottoposta la questione circa la fondatezza dell'originaria azione di riduzione, di riscontrare l'assenza di una delle condizioni dell'azione, quale quella poi in concreto affermata.
Rileva a tal fine il principio affermato da questa Corte nella sua più autorevole composizione (Cass. S.U. n. 11799/2017, richiamata anche dalla difesa della ricorrente), che ha affermato che in tema di impugnazioni, solo qualora un'eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un'enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d'appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all'esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345 c.p.c., comma 2, (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell'art. 329 c.p.c., comma 2), né sufficiente la mera riproposizione. Laddove invece l'eccezione non sia rigettata, e ciò in quanto non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure, si impone la riproposizione dell'eccezione ex art. 346 c.p.c., ma con la ulteriore precisazione che ciò è necessario solo se il potere di sua rilevazione è riservato esclusivamente alla parte, mentre, se competa anche al giudice, non ne impedisce a quest'ultimo il rilievo ex art. 345 c.p.c., comma 2, (conf. Cass. n. 24658/2017; Cass. n. 14899/2022).
Il giudice di appello ha fatto puntuale riferimento ai precedenti di questa Corte a mente dei quali il difetto dell'accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario, la quale è condizione di ammissibilità dell'azione di riduzione delle liberalità in favore di persone non chiamate alla successione come eredi, non è oggetto di un'eccezione in senso tecnico, sicché la mancanza di tale condizione, come per tutte le altre condizioni dell'azione, deve essere rilevata d'ufficio dal giudice, anche in grado di appello (Cass. n. 18068/2012; Cass. n. 1701/1968), il che consente di affermare l'incensurabilità della decisione impugnata nella parte in cui ha rilevato d'ufficio il difetto della condizione de qua, non potendosi invocare alcun giudicato interno, idoneo a precludere il rilievo ufficioso del difetto della condizione dell'azione di riduzione. 4. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 550,553 e ss., 588 e 1362 c.c., con riguardo alla qualificazione come legato della disposizione testamentaria a favore di R.A.M. ed al rapporto tra azione di riduzione e cautela sociniana.
Il motivo, mentre nella prima parte richiama la pretesa efficacia vincolante della sentenza di primo grado circa la qualificazione dei convenuti come coeredi (questione sulla quale si rinvia a quanto esposto in occasione dell'esame del primo motivo di ricorso), assume altresì che in realtà la R. non poteva essere qualificata come mera legataria, e ciò anche in ragione della congiunta attribuzione della piena proprietà di alcuni beni.
Tuttavia, anche in relazione a tale secondo profilo reputa il Collegio di poter fare rinvio alle ragioni esposte in occasione della disamina del primo motivo, dovendosi quindi concordare con il giudice di appello circa la qualifica della R. quale semplice legataria.
Nella seconda parte il motivo invece contesta la corretta esegesi che la Corte d'Appello ha offerto della previsione dell'art. 550 c.c., e specificamente in merito all'affermazione secondo cui in presenza della cautela sociniana la tutela del legittimario che non intenda assecondare le volontà del de cuius non transita attraverso l'esercizio dell'azione di riduzione, ma si estrinseca nel diritto di abbandono della parte eccedente la legittima.
La sentenza di appello, analogamente a quella di primo grado, si fonda su di una duplice ratio, avendo in primo luogo reputato inammissibile la domanda di riduzione per difetto della condizione di cui all'art. 564 c.c. A questa ha poi aggiunto la considerazione circa l'effettiva riconducibilità della fattispecie alla previsione di cui all'art. 550 c.c. (e ciò in ragione del valore dei beni interessati dalla successione), per osservare che in questa diversa prospettiva la tutela del legittimario non richiede l'esercizio dell'azione di riduzione, ma il solo abbandono della porzione disponibile, con un automatico riallineamento delle attribuzioni testamentarie alle previsioni in tema di legittima.
Sostiene però parte ricorrente che anche in presenza di una cautela sociniana non sarebbe preclusa al legittimario la possibilità di esercitare l'azione di riduzione.
Ritiene il Collegio che l'esame del motivo in questa seconda parte si riveli superfluo, atteso che in tema di ricorso per cassazione, qualora la motivazione della pronuncia impugnata sia basata su una pluralità di ragioni, convergenti o alternative, autonome l'una dall'altra, e ciascuna da sola idonea a supportare il relativo "dictum", la resistenza di una di esse all'impugnazione rende del tutto ultronea la verifica di ogni ulteriore censura, perché l'eventuale accoglimento di tutte o di una di esse mai condurrebbe alla cassazione della pronuncia suddetta (cfr. Cass. n. 3633/2017).
Peraltro, poiché la critica investe la conclusione del giudice di appello, secondo cui il meccanismo di cui all'art. 550 c.c. precluderebbe proprio l'esercizio dell'azione di riduzione, ove anche la censura si rivelasse fondata, l'azione di riduzione così proposta per reagire alla volontà del testatore incorrerebbe comunque nell'inammissibilità per la violazione dell'art. 564 c.c., così come rilevato a seguito della disamina dei primi due motivi di ricorso.
La doglianza è peraltro anche infondata nel merito.
L'art. 550 c.c. ha sostanzialmente riprodotto nel codice l'istituto della cautela sociniana. Dispone infatti il comma 1 del citato articolo che, allorquando il testatore dispone di un usufrutto o di una rendita vitalizia il cui reddito eccede quello della disponibile, i legittimari ai quali è stata assegnata la nuda proprietà o di parte di essa, hanno la scelta o di eseguire tale disposizione o di abbandonare la nuda proprietà della porzione disponibile.
La norma, che si inserisce tra gli strumenti di tutela approntati dal legislatore in favore del legittimario, prevede un particolare effetto - derivante dalla legge e non già dalla volontà del testatore - in base al quale il legittimario, senza la necessità di dover ricorrere all'azione di riduzione, se voglia conseguire la piena proprietà della quota di riserva spettantegli ex lege, ha il diritto potestativo di variare gli effetti della successione, conseguendo in luogo della nuda proprietà, anche della disponibile, la sola quota di legittima, ma in piena proprietà.
L'istituto in oggetto, le cui origini si fanno erroneamente risalire all'elaborazione del giureconsulto S.M.j., il quale ben più limitatamente ebbe a sostenerne la validità in un parere datato intorno all'anno 1550, tende, a differenza dell'azione di riduzione, ad impedire il verificarsi di una lesione qualitativa della quota di legittima (una disposizione infatti quale quella in oggetto potrebbe in concreto attribuire al legittimario ben più di quanto spettantegli per legge, ma con l'imposizione anche sulla quota di legittima di un usufrutto, assimilabile ai pesi ed alle condizioni, la cui apposizione risulta vietata ex art. 549 c.c. - così Cassazione civile, sez. I, 29 dicembre 1970 n. 2782). La legge in tal caso, perseguendo un evidente scopo di semplificazione, volendo cioè evitare tutte quelle complesse controversie che potrebbero insorgere ove si dovesse procedere ad una stima del valore dell'usufrutto o della rendita in termini di capitale, al fine di accertare se vi sia stata o meno lesione quantitativa della quota di legittima, pone il legittimario di fronte alla scelta se accettare la nuda proprietà anche della porzione disponibile, esponendosi al dato aleatorio della durata della vita dell'usufruttuario, ovvero se abbandonare la disponibile, o quanto di essa avrebbe conseguito, per ottenere immediatamente la quota di legittima, senza limitazione alcuna.
Qualora quindi il legittimario opti per "l'abbandono" della nuda proprietà della disponibile, la stessa passa al legatario di usufrutto, il quale pertanto diviene pieno proprietario della disponibile (con una deroga al principio per qui il legatario non succede mai in una quota di proprietà del patrimonio ereditario), mentre l'usufrutto a questi lasciato per la parte relativa alla quota di legittima, viene automaticamente a cadere, dovendo andare a far parte della quota di riserva, verso cui si è indirizzata la scelta del legittimario.
Previsione analoga a quella ora esaminata è poi prevista nell'art. 550 c.c., comma 2 con riferimento alla diversa ipotesi in cui il legato concerna la nuda proprietà di una quota eccedente la disponibile, mentre il legittimario sia stato beneficiato dell'usufrutto anche su beni che eccedano la sua quota di legittima.
Così riassunta la ratio che sottende la norma in esame, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, deve piuttosto sottolinearsi come sia del tutto costante l'orientamento del giudice di legittimità, sebbene manifestatosi in non frequenti occasioni, per cui il potere attribuito dalla norma al legittimario di incidere unilateralmente sulla successione, prescinde dall'esercizio dell'azione di riduzione, la quale, impostata sul concetto di lesione quantitativa, non assicura al legittimario la qualità (piena proprietà), oltre che la quantità della legittima (Cass. n. 511/1995, Cass. n. 141/1985; Cass. n. 2782/1970).
Risulta perciò conforme a diritto la soluzione del giudice di appello che ha sostenuto che, a voler inquadrare le previsioni testamentarie oggetto di causa nella disciplina di cui all'art. 550 c.c., risultava escluso che l'attrice potesse far valere il diritto alla quota di riserva avvalendosi dell'azione di riduzione, dovendo piuttosto esercitare il diritto potestativo di abbandono della parte di nuda proprietà eccedente la legittima.
5. Il quarto motivo del ricorso principale denuncia la violazione e falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014, art. 5 e dell'art. 12 c.p.c., con riferimento alla quantificazione delle spese di lite.
La Corte d'Appello, nel condannare la ricorrente al rimborso delle spese di lite, ha liquidato le stesse sulla scorta dello scaglione di valore da 2 a 4 milioni di Euro, trascurando che però, a norma dell'art. 5 del citato D.M., i compensi andavano determinati non sul valore dell'intera massa, ma sulle quote in contestazione. Si denuncia altresì la scorrettezza del richiamo ai criteri tabellari dettati per il giudizio di divisione, essendosi invece al cospetto di un'azione di riduzione, per la quale il valore doveva essere ritenuto indeterminabile.
Il motivo è infondato.
Ritiene il Collegio di dover far richiamo a quanto di recente statuito da Cass. n. 23508/2023, che ha deciso su analoga censura riferita alla pretesa erroneità della liquidazione delle spese sulla base dello scaglione di valore riferito all'intera massa, e non già al minor valore della quota ereditaria vantata dall'attrice.
Non ignora questa Corte che in passato la propria giurisprudenza abbia affermato che (cfr. Cass. n. 195/2020) ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato, nelle controversie aventi ad oggetto un'azione di riduzione per lesione della quota di legittima, il valore della causa non è quello della massa attiva ex art. 12 c.p.c., ma quello della quota in contestazione, applicandosi analogicamente la disciplina dettata per i giudizi di divisione dal D.M. n. 127 del 2004, art. 6 in quanto tale norma è diretta a collegare il valore della causa all'interesse in concreto perseguito dalla parte (in termini analoghi, Cass. n. 6765/2012, secondo cui ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato, il valore della causa di divisione non è quello della massa attiva ex art. 12 c.p.c., ma quello della quota in contestazione, poiché del D.M. n. 127 del 2004, l'art. 6 pur rinviando in generale al codice di procedura civile per la determinazione del valore della causa ai fini della liquidazione degli onorari a carico del soccombente, deroga a tale rinvio in materia di giudizi divisori, per i quali stabilisce che il valore è determinato in relazione "alla quota o ai supplementi di quota in cointestazione"; Cass. n. 22016/2018).
Tuttavia, nella fattispecie, trovando applicazione già in primo grado la disciplina di cui al D.M. n. 55 del 2014 (essendo la sentenza del Tribunale stata emessa nel 2016), non può non segnalarsi la differente formula dell'art. 5 di tale D.M., rispetto al testo del richiamato art. 6, che, per quanto qui interessa, così recita: Nella liquidazione dei compensi a carico del soccombente, il valore della causa - salvo quanto diversamente disposto dal presente comma - è determinato a norma del codice di procedura civile. Nei giudizi per azioni surrogatorie e revocatorie, si ha riguardo all'entità economica della ragione di credito alla cui tutela l'azione è diretta, nei giudizi di divisione alla quota o ai supplementi di quota o all'entità dei conguagli in contestazione. Quando nei giudizi di divisione la controversia interessa anche la massa da dividere, si ha riguardo a quest'ultima. Nei giudizi per pagamento di somme o liquidazione di danni, si ha riguardo di norma alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata. In ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile o alla legislazione speciale.
Nel giudizio in esame, atteso il tenore delle domande proposte dall'attrice, l'oggetto del giudizio di riduzione non poteva essere limitato al solo valore della quota in contestazione, ma investiva l'intera massa di dividere, in quanto si dibatteva circa la necessità di ampliare la massa per l'esistenza di donazioni effettuate in vita dal de cuius, ed in merito al valore da attribuire a tutti i beni destinati ad essere interessati dalla riunione fittizia. Correttamente, quindi, la sentenza impugnata ha individuato lo scaglione, sulla base del quale calcolare le spese di lite, avuto riguardo al valore dell'intera massa, dovendosi quindi pervenire al rigetto anche di questo motivo.
6. Il primo motivo del ricorso incidentale lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. quanto all'omessa pronuncia sulla domanda di condanna della controparte ex art. 96 c.p.c..
Si deduce che nella comparsa di risposta in appello aveva formulato una richiesta di condanna dell'attrice ex art. 96 c.p.c., u.c. (nella formulazione precedente la novella del 2022), domanda che però non è stata in alcun modo esaminata dal giudice di appello.
Il motivo è infondato.
Rileva a tal fine che il giudizio in primo grado è stato introdotto nel 1995, così che ratione temporis non risulta applicabile il dettato dell'art. 96 c.p.c., comma 3 cui fa riferimento il ricorrente, trattandosi di norma destinata a trovare applicazione ai giudizi introdotti in primo grado in data successiva al 4 luglio 2009.
Ne deriva che trattandosi di norma insuscettibile di trovare applicazione, correttamente il giudice ha omesso di statuire sulla relativa richiesta.
8. Il secondo motivo del ricorso incidentale che lamenta l'omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e art. 554 c.c. quanto all'omessa considerazione del difetto di allegazione della ricorrente in ordine alla effettiva entità della lesione subita, resta invece assorbito essendo stato condizionato espressamente all'accoglimento del ricorso principale.
9. Le spese del presente giudizio seguono la prevalente soccombenza della ricorrente principale e si liquidano come da dispositivo.
Le ragioni che hanno determinato il rigetto del primo motivo del ricorso incidentale sorreggono anche il rigetto dell'analoga domanda avanzata ex art. 96 c.p.c. nel presente giudizio.
10. Poiché il ricorso principale è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater - della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte della ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per le stesse impugnazioni.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale ed il primo motivo del ricorso incidentale, dichiarando assorbito il secondo motivo del ricorso incidentale;
condanna la ricorrente principale al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 15.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge, per R.G., ed in complessivi Euro 15.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge, per C.V., R.R. e R.M.;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale dell'ulteriore somma pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell'art. 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 novembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2023