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Concussione e induzione indebita: l'utile immediato e contingente per la vittima è irrilevante


Corte di Cassazione

La massima

In tema di induzione indebita ex art. 319-quater c.p. , qualora rispetto al vantaggio prospettato, quale conseguenza della promessa o della dazione indebita dell'utilità, si accompagni anche un male ingiusto di portata assolutamente spropositata, la presenza di un utile immediato e contingente per il destinatario dell'azione illecita risulta priva di rilievo ai fini della possibile distinzione tra costrizione da concussione ed induzione indebita, in quanto, in tal caso, il beneficio risulta integralmente assorbito dalla preponderanza del male ingiusto. (Fattispecie relativa alla condanna per tentata concussione emessa nei confronti di un appartenente all'Agenzia delle Entrate che, al fine di ottenere l'elargizione di una somma di denaro, prospettava un accertamento tributario per un importo assolutamente spropositato rispetto al dovuto - Cassazione penale , sez. VI , 28/09/2021 , n. 38863).



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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 28/09/2021 , n. 38863

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Roma riformava parzialmente la pronuncia di primo grado - riqualificando la condotta del capo d'imputazione 1) come tentata concussione e rideterminando la pena, nonché revocando o sostituendo alcune pene accessorie - e confermava nel resto la medesima pronuncia del 14 luglio 2016 con la quale il Tribunale di Roma aveva condannato, oltre al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, alle pene di giustizia:


- C.G. e G.G.P. in relazione ai reati di cui agli artt. 56,110 e 317 c.p. (così derubricato il delitto originariamente contestato come consumato nel capo 1), di cui al decreto di giudizio immediato del 26 settembre 2014); artt. 110 e 479 c.p. e art. 476 c.p., comma 2, (capo 2); art. 110 c.p. e art. 640 c.p., comma 2, (capo 3), per avere, in concorso tra loro, il 19 giugno 2014, nella qualità di ispettori dell'Agenzie delle entrate, in occasione di una verifica ai fini delle imposte dirette, dell'iva e dell'irap, abusando dei loro poteri, tentato di farsi consegnare da P.M. o da R.L., rispettivamente legale rappresentante il primo e commercialista il secondo della società "Mezzo titolare di un'attività di ristorazione, la somma di 28.000 Euro, poi ridotta a 25.000 Euro, in specie rappresentando che in base a infondati calcoli con metodo induttivo emergevano ricavi non dichiarati quantificati dapprima in 1.132.000,00 Euro e poi in 560.000 Euro, prospettando le possibili ingiuste conseguenze; nonché per avere falsificato, tra il 3 e il 23 giugno 2014, nei verbali di verifica gli orari di inizio e di fine delle operazioni, così pure traendo in errore l'Agenzia delle entrate e procurandosi l'ingiusto profitto della retribuzione per un'attività lavorativa non svolta;


- il C. e il G. in relazione ai reati di artt. 110 e 479 c.p., e art. 476 c.p., comma 2, (capi 4) e 6); art. 110 c.p. e art. 640 c.p., comma 2, (capi 5) e 7), per avere, nella indicata qualità di ispettori dell'Agenzie delle entrate, falsificato nei verbali di verifica gli orari di inizio e di fine delle operazioni, così pure traendo in errore l'Agenzia delle entrate e procurandosi l'ingiusto profitto della retribuzione per un'attività lavorativa non svolta, con riferimento alle operazioni di verifica compiute, tra il 10 e il 13 giugno 2014, presso la società MEP Muse Esercizi Pubblici, e, tra il (OMISSIS), presso la società Le Rocce;


- il C. e G.A. in relazione ai reati di cui agli artt. 110,56 e 317 c.p. (capo 1), di cui alla numerazione del processo instaurato con decreto di giudizio immediato del 14 gennaio 2017, poi indicato nella sentenza di appello come capo 8); artt. 110 e 479 c.p. e art. 476 c.p., comma 2, (capo 2), poi indicato come capo 9); art. 110 c.p. e art. 640 c.p., comma 2, (capo 3), poi indicato come capo 10); per avere, in concorso tra loro, in data prossima al 30 settembre 2013, nella anzidette qualità di ispettori dell'Agenzie delle entrate, in occasione di una verifica ai fini delle imposte dirette, dell'iva e dell'irap, abusando dei loro poteri, tentato di farsi consegnare da E.G., legale rappresentante della società Casale esercente attività di ristorazione, la somma di 50.000 Euro, prospettando che, in caso di consegna di quella somma, il verbale finale di constatazione sarebbe stato di importo zero, che altrimenti sarebbe stato elevato un verbale con contestazioni di rilevante importo; nonché per avere falsificato, tra il (OMISSIS), nei verbali di verifica gli orari di inizio e di fine delle operazioni, così pure traendo in errore l'Agenzia delle entrate e procurandosi l'ingiusto profitto della retribuzione per un'attività lavorativa non svolta;


- il C. (in concorso con B.A., non ricorrente) in relazione anche del reato di cui agli artt. 110,56 e 317 c.p. (capo 4), poi indicato come capo 11), per avere, tra il 5 e il 20 marzo 2013, nella qualità di ispettore dell'Agenzie delle entrate in occasione di una verifica ai fini delle imposte dirette, dell'iva e dell'irap, abusando dei suoi poteri, tentato di farsi consegnare dal legale rappresentante della società 2M la somma di 80.000 Euro, poi ridotta a 50.000 Euro, allo scopo di "addomesticare" le contestazioni.


2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il C., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti sei motivi.


2.1. Violazione di legge, in relazione alle norme di diritto penale sostanziale contestate al capo 1), e vizio di motivazione, per mancanza, manifesta illogicità, contraddittorietà e travisamento, per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto che i fatti accertati avessero integrato gli estremi di una tentata concussione: laddove le emergenze processuali avevano escluso che il C. avesse abusato dei propri poteri di pubblico ufficiale, avesse utilizzato forme di pressione tali da non lasciare margini di autodeterminazione nei propri interlocutori, ovvero avesse creato uno stato di soggezione nelle presunte persone offese, le quali avevano, invece, agito allo scopo di perseguire un vantaggio indebito: dati che avevano comprovato che l'imputato aveva impiegato un legittimo metodo di accertamento induttivo dei ricavi dell'impresa sottoposta a verifica - previsto dalla normativa di settore, avallato dalla prassi amministrative (come confermato dai testi B. e G., nonché dal fatto che l'operato del C. non fosse stato sottoposto a rilievi da parte dei superiori) e accreditato dalla giurisprudenza in materia - legittimità del metodo che i giudici di merito (senza nulla dire riguardo alla obiettiva inaffidabilità dei dati riportati nelle scritture contabili della società Mezzò) avevano ritenuto di contrastare, facendo erroneamente riferimento alla arbitrarietà di un prima constatazione "milionaria" operata dal pubblico ufficiale, così travisando le prove perché di un siffatto "spauracchio" le persone offese non avevano parlato; i pubblici ufficiali, dunque, non avevano affatto "artatamente gonfiato" i risultati della verifica, e i reiterati tentativi che i privati avevano fatto, prendendo per primi ogni iniziativa, per "contattare" gli imputati (talora significativamente concretizzatisi in chiamate telefoniche fatte da call center, a conferma della consapevolezza delle illiceità delle proprie iniziative: aspetti sui quali le persone offese avevano nel tempo reso deposizioni non lineari), non potevano che essere spiegati dalla volontà di quei privati di cercare una trattativa e, perciò, di perseguire un indebito vantaggio, e non anche dall'intento di acquisire elementi per formalizzare una denuncia.


2.2. Violazione di legge, in relazione all'art. 319-quater c.p., e vizio di motivazione, per apparenza e manifesta illogicità, per avere la Corte territoriale disatteso l'ipotesi ricostruttiva che la difesa aveva offerto in via subordinata, e cioè che i fatti accertati avessero, al più, integrato gli estremi del reato (consumato o tentato) di induzione indebita a dare o promettere: come riscontrato dall'assenza di condotte dei pubblici ufficiali di per sé costrittive; dalla legittimità del metodo di accertamento induttivo tributario che gli stessi avevano impiegato durante la verifica, dunque dalla mancanza di prova di un comportamento arbitrario; dall'ambiguo atteggiamento assunto nella vicenda dalle presunte persone offese, che chiaramente avevano cercato di perseguire un indebito vantaggio, come pure confermato dal tenore di una conversazione registrata alla quale avevano preso parte il titolare e il commercialista della società sottoposta a verifica (durante la quale i due avevano discusso della possibilità di rivolgersi a "persone influenti" per ottenere una ripetizione di quella verifica fiscale). Opzione interpretativa che, pertanto, avrebbe dovuto condurre a ritenere inutilizzabili erga omnes le dichiarazioni rese, fin durante le indagini o quanto meno a partire dal giudizio dibattimentale, dalle asserite persone offese: eccezioni difensive formulate con l'atto di appello alle quali la Corte territoriale aveva replicato in maniera sbrigativa e, nella sostanza, apparente.


2.3. Violazione di legge, in relazione alle norme di diritto penale sostanziale contestate al capo 8) (già capo 1) del secondo decreto di vocatio in iudicium), e mancanza di motivazione, per avere la Corte distrettuale omesso di valutare compiutamente le questioni che erano state poste con l'atto di appello, analoghe a quelle formulate in relazione all'imputazione del capo 1): in particolare, trascurando che gli esiti della verifica fiscale operata dal C. erano stati impugnati, ma confermati nella validità dei loro presupposti dal giudice tributario; e come la presunta persona offesa, che non aveva affatto parlato della prospettazione, da parte dei pubblici ufficiali, di una constatazione fiscale "milionaria", si fosse mosso perché animato dall'interesse ad ottenere un indebito vantaggio, sicché i fatti avrebbero potuto, al più, integrare gli estremi del meno grave reato di cui all'art. 319-quater c.p..


2.4. Violazione di legge, in relazione alle norme di diritto penale sostanziale contestate al capo 11) (già capo 4) del secondo decreto di vocatio in iudicium), e mancanza di motivazione, per avere la Corte di appello - compiendo gli stessi errori giuridici di impostazione generale già evidenziati con i motivi afferenti agli altri analoghi addebiti di tentata concussione - omesso di considerare che la commissione tributaria aveva rigettato il ricorso presentato dal B. contro i risultati degli accertamenti compiuti dal C.; nonché per non avere spiegato in che termini si fosse atteggiato il concorso tra l'extraneus B. ed il pubblico ufficiale C., che la persona offesa aveva riconosciuto non avesse formulato direttamente alcuna richiesta indebita né avesse altrimenti minacciato una "evasione milionaria": considerato anche che gli stessi giudici di merito avevano ammesso che nel corso della verifica fiscale i dati non erano stati affatto modificati e che la prospettazione aveva riguardato l'eventuale notifica di un "verbale addomesticato", che avrebbe potuto far ottenere al privato un indebito vantaggio (con conseguente configurabilità del diverso reato di cui all'art. 319-quater c.p.).


2.5. Violazione di legge, in relazione alle norme di diritto penale sostanziale contestate ai capi da 1) a 6), 8) e 9) (capi 2) e 3) del secondo decreto di vocatio in iudicium), e mancanza di motivazione, per avere la Corte di merito omesso di considerare che l'attività lavorativa del C. era caratterizzata nel suo compimento di molteplici aspetti in luoghi diversi, che, dunque, non si esauriva nelle iniziative svolte presso la sede dei soggetti verificati: aspetto, questo, che, ai fini di prova, avrebbe dovuto condurre a ritenere irrilevante l'esito degli accertamenti compiuti sulla localizzazione del cellulare dell'imputato (come peraltro indirettamente confermato dalle valutazioni al riguardo compiute dal responsabile della direzione regionale dell'amministrazione cui apparteneva il C.).


2.6. Vizio di motivazione, per mancanza o apparenza, per avere la Corte territoriale ingiustificatamente disatteso la richiesta difensiva di riconoscimento delle attenuanti generiche e di riduzione della pena, benché la difesa avesse segnalato una serie di circostanze favorevoli all'imputato, quali l'assenza di profitto economico, l'avallo dato dall'autorità giudiziaria tributaria alle prassi di verifica seguite dal C., nonché l'esito favorevole del procedimento disciplinare aperto contro il prevenuto. Nessuna risposta era stata, infine, data alla richiesta difensiva di contenere la pena irrogata.


3. Contro la stessa sentenza ha presentato ricorso anche il G. - con due distinti atti di analogo contenuto, di cui uno a firma di uno dei suoi difensori e l'altro a firma di entrambi - il quale ha dedotto i seguenti sette motivi.


3.1. Vizio di motivazione, per mancanza, manifesta illogicità, contraddittorietà e travisamento della prova, per avere la Corte di appello travisato il contenuto della deposizione del teste R., ritenendo che il G. - assente in altro incontro con le presunte persone offese - avesse concorso nell'attività illecita del C. incontrando il R. e pronunciando una frase ("200 sul reddito imponibile") di cui il teste non ha saputo cogliere il significato e che, in ogni caso, l'imputato ha negato di aver mai pronunciato.


3.2. Vizio di motivazione, per mancanza, manifesta illogicità, contraddittorietà e travisamento della prova, per avere la Corte territoriale attribuito al G. un contributo concorsuale nella commissione del reato sub capo 1), laddove è stato accertato che il prevenuto non avesse mai parlato con le persone offese di importi diversi da quello di 560.000 trascritto in un appunto e non sapesse dell'incontro che il C. avrebbe avuto con il R. in via (OMISSIS).


3.3. Violazione di legge, in relazione all'art. 125 c.p.p. e art. 110 c.p., e vizio di motivazione, per apparenza, per avere la Corte distrettuale sostenuto l'esistenza di un concorso del G. nelle iniziative del C. sulla base dell'apodittico principio del "non poteva non sapere", valorizzando un dato incerto, quale quello di avere partecipato ad un incontro con il R. al quale egli e il C. si erano presentati senza portare con sé il verbale, perché la riunione era finalizzata alla consegna del denaro.


3.4. Violazione di legge, in relazione agli artt. 56 e 133 c.p., e vizio di motivazione, per mancanza e manifesta illogicità, per avere la Corte di merito erroneamente calcolato la pena considerando il tentativo alla stregua di una circostanza attenuante, con una riduzione solo di un terzo, laddove il presunto contributo dato dal G. alla realizzazione del proposito criminoso era stato minore rispetto a quello del coimputato.


3.5. Violazione di legge, in relazione agli artt. 317 e 319-quater c.p., e vizio di motivazione, per manifesta illogicità e contraddittorietà, per avere la Corte di appello erroneamente confermato la qualificazione del fatto in termini di tentata concussione, laddove l'imputato non aveva minacciato alcun male ingiusto né fatto riferimento ad una iniziale minaccia di una evasione di un 1.000.000 di Euro, ma solo prospettato il riconoscimento di una evasione di imposta in misura inferiore rispetto a quella reale (avendo, in particolare, il G. indicato alle persone offese una evasione di entità -560.000 Euro-prossima a quella poi riportata nel verbale di constatazione -420.000 Euro); senza considerare che le persone offese non si erano affatto trovate in uno stato di soggezione, avevano intavolato una trattativa con i pubblici ufficiali ed avevano, anzi, discusso della possibilità di far "intervenire" esponenti delle forze dell'ordine o altri dipendenti dell'agenzia delle entrate.


3.6. Violazione di legge, in relazione agli artt. 125 c.p.p. e alle norme di diritto penale sostanziale contestate ai capi dal 2) al 7), e vizio di motivazione, per mancanza, manifesta illogicità, contraddittorietà e travisamento della prova, per avere la Corte territoriale confermato la sentenza di condanna di primo grado in ordine ai reati di falso e di truffa, benché non sia stato acquisita alcuna prova certa e siano stati valorizzati dati riguardanti il traffico telefonico dei cellulare che sarebbe stato meglio far sottoporre all'esame di un perito; senza dire che l'accusa non aveva dimostrato che quegli apparecchi non fossero stati utilizzati da terze persone.


3.7. Violazione di legge, in relazione all'art. 1126 c.c., D.M. n. 55 del 2014, artt. 1 e segg. e vizio di motivazione, per mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà, per avere la Corte distrettuale omesso di considerare, ai fini della quantificazione del danno patito dalla pubblica amministrazione, che la condotta asseritamente concussiva si era fermata allo stadio del tentativo, che il G. aveva risarcito il pregiudizio causato dalle truffe; non essendo stata fornita alcuna prova circa il danno all'immagine patito dall'ente; né motivato il quantum della liquidazione, avvenuta in maniera arbitraria e sproporzionata rispetto alle posizioni di altri imputati; e neppure giustificata la quantificazione delle spese legali nei due gradi di giudizio, determinata in misura superiore ai limiti tabellari e senza tenere conto degli effettivi sviluppi del giudizio di appello.


4. Avverso la medesima sentenza ha proposto ricorso anche il G., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti tre motivi.


4.1. Violazione di legge, in relazione all'art. 192 c.p.p. e alle norme di diritto penale sostanziale contestate al capo 8), e vizio di motivazione, per mancanza e illogicità, per avere la Corte di appello confermato, con uno stringato apparato argomentativo, la fondatezza dell'ipotesi accusatoria, senza considerare che il metodo di verifica fiscale, basato su un accertamento di tipo induttivo, utilizzato dai due ispettori era corretto; senza spiegare perché le dichiarazioni rese dalla persona offesa E. fossero attendibili, laddove questi aveva fornito un racconto inverosimile e non aveva chiarito perché non avesse memorizzato il messaggio sms che aveva inviato al G. per rifiutare il pagamento della "mazzetta"; liquidando in maniera sbrigativa e illogica le numerose questioni che la difesa aveva posto con l'atto di appello (omessa indicazione delle ragioni per cui l' E. non avesse registrato il colloquio che aveva avuto nel ristorante con il C.; la mancanza di frasi inequivoche nel corso della conversazione registrata tra l' E. e il G.; la circostanza che il G. avesse giustificato le sue frasi con il riferimento ad alcuni documenti che l' E. doveva ancora consegnare e che significativamente questi avrebbe poi utilizzato nel suo ricorso tributario per giustificare l'esistenza di "rimanenze finali"; il generico riferimento ad una smentita del C.; il travisamento circa la data di chiusura del verbale di constatazione); l'omessa giustificazione in ordine alle ragioni per le quali il gestore del ristorante si sarebbe sentito "intimidito" dai due ispettori, nonostante il riferimento ad un accertamento macroscopico (di un milione di Euro) fosse stato solo accennato dal G. in un iniziale incontro.


4.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 317 e 319-quater c.p.p., e vizio di motivazione, per mancanza e illogicità, per avere la Corte di merito ingiustificatamente confermato la qualificazione giuridica dei fatti in termini di tentata concussione, nonostante fossero risultati dimostrati tanto la correttezza del metodo di accertamento fiscale impiegato dai due ispettori, che era stato avallato dalla commissione tributaria che aveva rigettato il ricorso presentato dall' E. contro i risultati di quella verifica, quanto l'atteggiamento dell' E., che, conservando una libertà di autodeterminazione, aveva agito allo scopo di evitare l'accertamento ovvero di limitare l'ammontare dello stesso; e non era stato affatto quello di chi era intimorito dalle iniziative di "lusinga", meramente "induttive", dei pubblici ufficiali, bensì quello di conseguire un indebito vantaggio.


4.3. Violazione di legge, in relazione alle norme di diritto penale sostanziale contestate ai capi 9) e 10), e vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale confermato la colpevolezza del G. in relazione ai reati di falso e di truffa, valorizzando solo i dati del traffico telefonico, senza alcun riscontro testimoniale e senza spiegare in che termini la pubblica amministrazione avesse subito un danno dalla mancata corrispondenza dei luoghi di svolgimento del lavoro.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Ritiene la Corte che i ricorsi presentati nell'interesse dei tre imputati siano inammissibili, perché i relativi motivi risultano formulati per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge ovvero risultano manifestamente infondati e talora generici.


2. I primi quattro motivi del ricorso del C., il primo, il secondo motivo, il terzo e il quinto motivo del ricorso del G., ed i primi due motivi del ricorso del G. - strettamente connessi tra loro e, perciò esaminabili congiuntamente - non superano il vaglio preliminare di ammissibilità.


2.1. I ricorrenti solo formalmente hanno indicato una serie di doglianze riguardanti vizi della motivazione della decisione gravata, ma non hanno prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell'argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; né ha indicato una incompleta descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione.


Con censure in fatto al percorso motivazionale seguito dalla decisione gravata, i ricorrenti hanno criticato il significato che la Corte di appello di Roma aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite; e, lungi dal proporre un effettivo "travisamento delle prove", vale a dire una incompatibilità tra l'apparato argomentativo del provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell'intera motivazione, le impugnazioni sono state presentate per sostenere, in pratica, una ipotesi di "travisamento dei fatti" oggetto di analisi, sollecitando un'inammissibile rivalutazione dell'intero materiale d'indagine, rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale.


La motivazione contenuta nella sentenza impugnata possiede, con riferimento alle tre imputazioni di tentata concussione dei capi 1), 8) e 11), una stringente e completa capacità persuasiva, nella quale non sono riconoscibili vizi di manifesta illogicità: avendo la Corte di appello spiegato come la colpevolezza dei tre imputati in relazione a tali tre delitti fosse stata dimostrata essenzialmente dalle dichiarazioni rese dalle persone offese (titolari ovvero interessati alla gestione dei tre ristoranti presso i quali i tre ispettori delle agenzie delle entrate avevano avviato le verifiche fiscali), che avevano riferito di aver ricevuto dai pubblici ufficiali, in forme e modalità volta per volta peculiari, l'indicazione di possibili contestazioni di importi di ricavi in evasione eccezionalmente elevati, con l'aggiunta che versando loro somme di denaro essi avrebbero potuto ottenere, a seconda dei casi, una sensibile riduzione degli importi di ricavi evasi da riportare nei verbali di constatazione ovvero la totale cancellazione di quegli importi.


In tale ottica risulta convincente e priva di incongruenze logiche la impostazione seguita dalla Corte territoriale che, in parte modificando l'approccio che era stato scelto nella lettura delle emergenze processuali dal giudice di primo grado (che aveva preferito concentrarsi sulla illegittimità del metodo di calcolo delle imposte evase utilizzato dagli imputati), ha sottolineato come nelle tre vicende in esame fossero irrilevanti le divergenti opinioni in ordine alla conformità di un metodo di calcolo delle imposte asseritamente evase, caratterizzato dall'esercizio di un potere qualificato da un elevato tasso di discrezionalità tecnica, alla normativa e alle prassi in materia; così come ininfluente fosse il fatto che le conclusioni formulate dagli odierni imputati con i verbali di constatazione redatti e depositati alla fine di quelle tre verifiche (notificati quando i prevenuti si erano resi conto che i concussi non erano disponibili a versare quanto preteso), erano stati accreditati da sentenze emesse dalla commissione tributaria adita dai destinatari delle rispettive verifiche.


Ciò che conta, hanno efficacemente posto in risalto i giudici di merito, non e', dunque, che gli odierni imputati - resisi conto della indisponibilità dei ristoratori di versare quanto essi avevano loro indebitamente richiesto, da cui appunto l'addebito formulato ovvero riconosciuto in termini di tentativo - avessero formulato quelle conclusioni con il deposito di verbali di accertamento attestanti una effettiva evasione del pagamento delle imposte; bensì la circostanza che i tre pubblici ufficiali, abusando dei poteri loro spettanti, perché esercitati in maniera palesemente distorta, avessero in precedenza, nella fase iniziale di ciascuna delle tre verifiche, prospettato la contestazione di rilevantissimi importi di evasione, di gran lunga superiori a quelli, ridotti, che sarebbero stati indicati nei verbali finali, sì da intimorire i loro interlocutori (perché importi di entità tale "da mettere in ginocchio qualsiasi realtà commerciale"), creando negli stessi una situazione di soggezione psicologica, per cercare di costringerli a versare loro le somme indebitamente pretese.


2.1.1. In particolare, nel caso della tentata concussione in danno dei titolari del ristorante della società "Mezzo", nella sentenza gravata si legge che la penale responsabilità del C. e del G. era risultata provata dalle dichiarazioni, lineari e coerenti tra loro, rese da M. e P.A., soci di quella impresa, e da R.L., commercialista della azienda.


Al riguardo, l'indicazione offerta dalle persone offese, che avevano ricordato come in prima battuta i due ispettori avessero prospettato la contestazione di una evasione di "oltre un milione di Euro", avesse trovato significativo riscontro nelle ammissioni del C. il quale, interrogato nella fase delle indagini, aveva sostenuto "la loro prima ricostruzione (aveva portato) a ricavi non dichiarati ammontanti a 1.132.000,00 Euro", senza poi spiegare come mai nel verbale finale di constatazione egli e il G. avessero indicato l'importo, di molto inferiore, di 410.000 Euro di ricavi evasi.


Alle vittime della iniziativa, alle quali pochi giorni dopo la prima minaccia "milionaria" loro rivolta dal C., che grande allarme' aveva causato negli imprenditori, a stretto giro era stata data una seconda indicazione dell'importo di 560.000, con la prospettazione, da parte del G., di ulteriori riduzioni (che ha riconosciuto tale circostanza) se, come hanno ricordato le persone offese, fosse stato pagato quanto richiesto dagli imputati. Era seguita la pretesa formulata, in un bar di via (OMISSIS), dal C. e dal G. di avere "7-8 su 200 di reddito imponibile" per arrivare ad una riduzione di quello che sarebbe stato fiscalmente contestato: richiesta meglio precisata dal C. che, in occasione di altro incontro in via (OMISSIS), allo stesso commercialista aveva chiarito che per "addomesticare il verbale" dovevano essere consegnati loro "8.000 Euro per ogni 100.000 Euro detratti dall'importo della somma evasa" (in luogo dei "200"indicati in precedenza); C. che poi aveva domandato espressamente la dazione di 27/28.000 Euro totali, ancora ridotti a 25.000 Euro, per addivenire al deposito di verbale finale che riportasse l'importo di ricavi non dichiarati di appena 140/150.000 Euro.


Oltremodo significativo quanto accaduto il 24 giugno 2014 allorquando il R., che con i fratelli P. - con i quali aveva preso in considerazione l'ipotesi di far intervenire "persone influenti" per far cercare di far ripetere la verifica in corso; e che in precedenza aveva chiamato il C. da un call center, a conferma dello stato di soggezione in cui essi privati si erano realmente venuti a trovare - aveva alla fine deciso di denunciare ai carabinieri i due funzionari infedeli, aveva chiamato e comunicato al C. che "i documenti erano pronti"; questi aveva preteso di incontrare il commercialista presso lo studio e non presso il ristorante, come inizialmente concordato; all'incontro il C., lì recatosi assieme al G., allundendo al denaro aveva chiesto al R. se "i documenti" fossero pronti ma, resosi conto che il commercialista "voleva fregarlo", era sceso nuovamente in strada con il G.; i due funzionari avevano prelevato un computer portatile dal bauletto di uno scooter e, risaliti nello studio, avevano notificato al professionista il verbale che avevano già preparato. Il giorno successivo, sottoposto ad intercettazioni, il C. aveva confidato ad un amico: "per fortuna che i soldi non li ho presi... quello me li voleva dare per forza... e invece non li ho presi e me so portato il verbale da 410 mila Euro... quello ci insisteva... cercava de incastrarme...".


Alla luce di tali elementi, la Corte territoriale ha convincentemente spiegato come fosse inverosimile la versione difensiva secondo cui il R. aveva rivolto ai funzionari una proposta corruttiva, perché incompatibile con il comportamento del C. che aveva accettato di incontrare più volte il commercialista prima di notificare il verbale di costatazione e che, nell'ultima occasione, si era recato nello studio del professionista assieme al G., senza che i due avessero subito portato con loro il verbale da notificate, evidentemente perché erano d'accordo a verificare se il privato sarebbe stato concretamente disponibile a versare la somma di denaro che era stata pretesa.


Nei risultati di tali valutazioni - nelle quali i giudici di merito hanno congruamente chiarito come l'azione concussiva fosse stata il frutto di una iniziativa concordata dai due imputati, ciascuno dei quali aveva dato un contributo determinante alla realizzazione del proposito delittuoso - resta, perciò, assorbito l'esame delle connesse doglianze formulate dal G. in termini di violazione dell'art. 110 c.p..


2.2.2. Nel caso della tentata concussione in danno di E.G., legale rappresentante della società che gestiva il ristorante "Casale Incontrada", nella sentenza impugnata è stato perspicuamente spiegato come la penale responsabilità del C. e del G. fosse risultata provata dalle dichiarazioni, precise e circostanziate, rese dal predetto E. - il quale aveva riferito che i due imputati, all'inizio della verifica, gli avevano subito prospettato una "situazione grave", parlando di ricavi evasi nella misura di 1.000.000 di Euro, ed avevano chiesto la consegna di 50.000 Euro dapprima "per non avere problemi", poi per ottenere "un verbale pari a zero"; E. che aveva rifiutato ogni disponibilità (senza che potesse rilevare il fatto che non aveva memorizzato il messaggino inviato al G.) ed al quale, alla fine, era stato notificato un processo verbale di costatazione di ricavi sottratti al calcolo del reddito nella misura di 236.000 Euro - che avevano trovato riscontro nel contenuto della registrazione della conversazione che la vittima aveva avuto con il G. (registrazione che non era riuscito a replicare in altra occasione con il C., perché si era accorto in ritardo dell'arrivo del funzionario): incontro nel corso della quale il G., riferendosi della "intransigenza" del C., era tornato a compulsare il ristoratore, comunicandogli che "doveva al più presto decidersi".


Elementi di prova la cui valenza dimostrativa non era stata scalfita dalla versione difensiva del G., il quale si era giustificato parlando di un incontro finalizzato solo a permettergli di richiedere dei "documenti" che l' E. avrebbe dovuto mettere a disposizione: narrazione che era stata contraddetta dal racconto del C., il quale, invece, aveva significativamente asserito che, il giorno prima dell'incontro tra l' E. e il G., il processo verbale di constatazione era oramai stato chiuso.


Ne' è stata trascurato come nella pronuncia oggetto del ricorso oggi in esame fosse stato valorizzato il fatto che, il giorno in cui l' E., in tarda serata, aveva deciso di comunicare al G. (e non al C., come per un errore scusabile la vittima aveva ad un certo punto riferito) il rifiuto a sottostare a quella pretesa, subito dopo vi erano stati contatti telefonici tra i due imputati, a conferma della intesa criminale che aveva qualificato la loro iniziativa.


2.2.3. Infine, nel caso della tentata concussione in danno del titolare della società "2M" gestore di un altro ristorante, nella sentenza gravata è stato congruamente chiarito come la penale responsabilità del C. fosse risultata provata dalle credibili dichiarazioni resa da B.S. - il quale, decisosi a denunciare quanto accadutogli dopo aver appreso che il C. era stato arrestato per altra analoga vicenda, aveva ricordato che, in occasione della verifica fiscale eseguita presso il suo esercizio commerciale, il C. significativamente al primo incontro si era presentato dicendo che del locale gli aveva parlato suo cugino B.A.; il giorno successivo aveva ricevuto la telefonata proprio del B. che, parlando a nome del C., gli aveva riferito del rischio di una contestazione di una evasione per un "importo molto elevato... di un milione, un milione e duecento mila Euro", chiedendo, "per risolvere la cosa", la consegna al funzionario della somma di 100.000 Euro, poi ridotta a 80.000 Euro, che egli B. si era rifiutato di versare; aveva così ricevuto la notifica di un verbale di constatazione con l'indicazione di ricavi asseritamente evasi alla tassazione per un ammontare molto minore, pari a 264.000 Euro - risultata riscontrata dalla deposizione resa al riguardo dal commercialista Alivernini, che aveva riferito quanto confidatogli dal proprio cliente.


2.3. In tale contesto risultano manifestamente infondate le ulteriori e connesse doglianze formulate - negli innanzi elencati punti dei tre ricorsi - in termini di violazione di legge.


2.3.1. La scelta operata dalla Corte di appello di confermare la sussistenza degli estremi dei delitti di tentata concussione, in ragione dell'accertata sproporzione delle pretese iniziali formulate dai pubblici agenti nei riguardi dei privati, rispetto all'indebito vantaggio che questi avrebbero potuto ottenere accettando il pagamento di quanto richiesto - si pone in linea con le indicazioni esegetiche riconoscibili nella giurisprudenza di questa Corte di cassazione.


Le Sezioni Unite della Cassazione, nel delineare la differenza tra i reati di concussione per costrizione, di cui all'art. 317 c.p., e di induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui all'art. 319-quater c.p., hanno fissato un criterio generale molto netto: chiarendo che il delitto di concussione è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno "contra ius" da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all'alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita; e che si distingue dal delitto di induzione indebita, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno, di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Maldera, Rv. 258470; in senso conforme, in seguito, tra le molte, Sez. 6, n. 9429 del 02/03/2016, Gaeta, Rv. 267277; Sez. 6, n. 32594 del 14/05/2015, Nigro, Rv. 264424; Sez. 6, n. 47014 del 15/07/2014, Virgadamo, Rv. 261008).


Tuttavia, in tale sentenza le Sezioni Unite hanno pure puntualizzato che la circostanza che il privato, destinatario della pretesa di una prestazione non dovuta, sia stato anche animato dal desiderio di perseguire un indebito vantaggio, non comporta sempre, in maniera "automatica", la configurabilità del delitto di cui all'art. 319-quater c.p.. E ciò perché, si è evidenziato, la realtà può proporre casi nelle quali l'applicazione di quel criterio generale necessita di un adeguamento, situazioni, per così dire "grigie" o "intermedie", nelle quali la differenziazione tra la minaccia di un danno antigiuridico e la prospettazione di un vantaggio indebito non è netta, potendo tali fattori coesistere. Casi, ad esempio, di minaccia-offerta, in cui "il pubblico agente non si sia limitato a minacciare un danno ingiusto, ma abbia allettato contestualmente il suo interlocutore con la promessa di un vantaggio indebito"; oppure casi di esercizio di un potere discrezionale "in forma pretestuosa", con uno "sviamento dell'attività amministrativa dalla causa tipica", nei quali occorre, si legge in quella sentenza, "un'approfondita ed equilibrata valutazione del fatto, cogliendo di quest'ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda concreta", per comprendere se "il vantaggio indebito annunciato abbia prevalso sull'aspetto intimidatorio, sino al punto da vanificarne l'efficacia".


Seguendo tale traccia, si è condivisibilmente specificato che integra il delitto di concussione, di cui all'art. 317 c.p., la condotta del dipendente dell'Agenzia delle entrate che, nella sua qualità di pubblico ufficiale, nel corso di una verifica fiscale, prima della contestazione di specifiche violazioni, richieda al soggetto sottoposto al controllo il pagamento di ingenti somme al fine di evitare prospettate severe sanzioni pecuniarie, quando la somma richiesta sia del tutto sproporzionata rispetto all'eventuale sanzione irrogabile (in questo senso Sez. 2, n. 37922 del 26/11/2020, Lunadei, Rv. 280468; v. anche Sez. 6, n. 30436 del 14/12/2017, dep. 2018, Lunadei, non mass.).


Alla luce di tali considerazioni va, dunque, ribadito il principio di diritto - di cui nel caso di specie è stata fatta applicazione dai giudici di merito - secondo il quale, qualora rispetto al vantaggio prospettato, quale conseguenza della promessa o della dazione indebita dell'utilità, si accompagni anche un male ingiusto di portata assolutamente spropositata, la presenza di un utile immediato e contingente per il destinatario dell'azione illecita risulta priva di rilievo ai fini della possibile distinzione tra costrizione da concussione ed induzione indebita, in quanto, in tal caso, il beneficio conseguito o conseguibile risulta integralmente assorbito dalla netta preponderanza del male ingiusto (Sez. 6, Sentenza n. 8963 del 12/02/2015, Maiorana, Rv. 262503).


2.3.2. Del tutto priva di pregio è la censura, formulata in particolare nel secondo motivo del ricorso del C., riguardante un'asserita violazione dell'art. 63 c.p.p., in quanto le deposizioni valorizzate nelle decisioni di merito erano stati rese da soggetti vittime dei reati accertati, a carico dei quali non erano emersi indizi di reità. Peraltro, il risultato non sarebbe cambiato quand'anche fosse stata riconosciuta la diversa qualificazione giuridica dei fatti sollecitata dal ricorrente, perché la configurazione di una induzione indebita necessariamente nella forma del tentativo avrebbe, comunque, escluso l'operatività di quel divieto processuale nei confronti degli indotti, soggetti che, non avendo versato né promesso alcuna utilità, sarebbero stati non punibili né altrimenti iscrivibili nel registro degli indagati.


2.3.3. Manifestamente infondata è anche la tesi difensiva (sviluppata, in specie, nel primo e nel secondo motivo del ricorso del C., nonché nel quinto motivo del ricorso del G.) per cui in alcuni dei casi non sarebbe configurabile una tentata concussione, perché le carte del processo avrebbero comprovato che le iniziative per favorire prese di contatto erano state prese e "coltivate" dai privati, che avevano così dimostrato di porsi in una posizione paritaria rispetto i pubblici agenti.


E', infatti, pacifico che l'iniziativa assunta dal pubblico ufficiale, pur potendo costituire un indice sintomatico dell'induzione o della costrizione, non assume una valenza decisiva ai fini del discrimine rispetto ad altre fattispecie, in quanto il requisito che caratterizza l'induzione indebita o, nei termini innanzi indicati, una concussione per costrizione, è la condotta prevaricatrice del funzionario pubblico, cui consegue una condizione di soggezione psicologica del privato che è ben compatibile anche con iniziative prese da quest'ultimo (in questo senso, tra le tante, Sez. 6, n. 52321 del 13/10/2016, Beccaro Migliorati, Rv. 268520; Sez. 6, n. 24401 del 11/03/2008, Carrano, Rv. 240355).


2.3.4. Inammissibile appare la doglianza esplicitata dalla difesa del C. con riferimento alla asserita assenza di prova di un abuso di potere nei termini contestati al prevenuto.


Se la censura fosse riferibile ad una violazione del principio di correlazione tra fatto addebitato e fatto oggetto della decisione, la stessa risulterebbe inammissibile perché proposta per la prima volta solo con il ricorso per cassazione. Se collegabile, invece, alla già considerata tematica della legittimità del metodo di verifica fiscale impiegato dal C., va ribadito come nella sentenza impugnata vi sia adeguata risposta a tale questione, con una soluzione in ogni caso coerente con la descrizione del fatto nel capo di imputazione: tenuto conto che l'accertata pretesa minacciosa vantata dai pubblici agenti, caratterizzata dalla quantificazione spropositata di ricavi non dichiarati - oggetto della iniziale prospettazione operata dai pubblici agenti, che aveva determinato l'effetto costrittivo nei confronti dei privati - ben poteva ritenersi corrispondente a quella "rappresentazione basata su infondati calcoli con metodo induttivo", di cui vi è traccia nell'addebito formale.


3. Il quinto motivo del ricorso del G. è inammissibile.


Oltre a porsi in contraddizione con le doglianze relative all'asserita assenza di prova di qualsivoglia forma di concorso, esso è stato formulato in termini molto indeterminati, a fronte di una puntuale motivazione nella quale erano stati illustrate le caratteristiche del ruolo tutt'altro che secondario avuto dal prevenuto nella commissione della tentata concussione ai danni del titolare del ristorante "Mezzo".


4. Il quinto motivo del ricorso del C., il sesto motivo del ricorso del G. e il terzo motivo del ricorso del G. - strettamente collegati tra loro concernenti gli addebiti di falso ideologico e delle connesse truffe aggravate, sono inammissibili, perché anch'essi presentati per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.


La sentenza impugnata - pure rinviando alla analitica disamina di quei capi contenuta nella sentenza di primo grado - ricostruisce in fatto le vicende con motivazione esaustiva, immune da vizi logici e strettamente ancorata alle emergenze processuali e, in particolare, alla documentazione acquisita: sicché può ritenersi acclarato che proprio nei giorni e negli orari che gli imputati avevano indicato nei verbali di verifica, attestando la loro presenza nelle sedi degli esercizi commerciali ivi indicati, essi si erano trovati in luoghi collocati a molti chilometri di distanza, come era stato possibile desumere dai dati degli apparecchi cellulari dagli stessi impiegati (senza che alcuno di loro avesse asserito che i telefoni erano stati utilizzati da altri soggetti). Elementi di conoscenza - la cui valenza dimostrativa non era stata affatto inficiata dalle valutazioni compiute in diversa sede dall'autorità amministrativa - incompatibili con asserite assenze temporanee per pause-pranzo o per altre contingenti esigenze personali, che erano state allegate in forma generica e che erano rimaste indimostrate.


I rilievi formulati al riguardo dai ricorrenti si muovono nella prospettiva di accreditare una diversa lettura delle risultanze istruttorie e si risolvono, quindi, in non consentite censure in fatto all'iter argomentativo seguito dalla sentenza di merito, nella quale, peraltro, vi è puntuale risposta a detti rilievi, in tutto sovrapponibili a quelli già sottoposti all'attenzione della Corte territoriale.


5. Il sesto motivo del ricorso del C. è manifestamente infondato.


Il ricorrente ha preteso che in questa sede si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali il giudice di merito aveva esercitato il potere discrezionale a lui concesso dall'ordinamento ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche: esercizio che doveva essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.


Nella specie - a fronte della mancata allegazione di concreti elementi favorevoli, nonché della già dichiarata irrilevanza del formale stato di incensuratezza e dell'assenza di profitto, inevitabile nei reati riconosciuti come solo tentati - del tutto legittimamente la Corte di merito ha ritenuto ostativo al riconoscimento delle attenuanti generiche la eccezionale gravità oggettiva delle reiterate condotte delittuose poste in essere dall'imputato e la pervicacia delle sue iniziative (così anche nella sentenza di primo grado, cui quella di appello fa espressamente rinvio), trattandosi di parametri considerati dall'art. 133 c.p., applicabile anche ai fini dell'art. 62-bis c.p..


Non censurabile è la lamentata mancata risposta alla richiesta difensiva di contenimento della pena irrogata, perché quella istanza era stata formulata nell'atto di appello in maniera molto generica: sicché è corretta la decisione della Corte territoriale di disattendere quella sollecitazione, con una implicita considerazione di tutti gli elementi segnalati nella motivazione generale riservata alle doglianze sul trattamento sanzionatorio.


6. Il settimo e ultimo motivo del ricorso del G. è manifestamente infondato.


Premesso che è del tutto fuorviante in questa sede il richiamo a disposizioni di legge finalizzate a fissare criteri di quantificazione del danno contabile o erariale subito dalla pubblica amministrazione, è sufficiente rilevare come i giudici di merito abbiano giustificato la determinazione del danno patrimoniale richiamando il tenore della pronuncia di primo grado, nella quale erano stati valorizzati i dati dimostrativi connessi anche alla entità delle retribuzioni comprensive degli emolumenti indebitamente percepiti in conseguenza delle truffe consumate; e del danno non patrimoniale e all'immagine patito dall'ente di riferimento con l'impiego del criterio discrezionale equitativo, rapportato al livello del disdoro provocato all'Agenzia delle entrate e alla posizione di grado elevato dei funzionari coinvolti nelle vicende.


Decisione, questa, che resta esente da censure, peraltro formulate nel ricorso in maniera indeterminata, perché rispettosa del principio di diritto secondo il quale, in tema di risarcimento del danno, la liquidazione dei danni morali, attesa la loro natura, non può che avvenire in via equitativa, dovendosi ritenere assolto l'obbligo motivazionale mediante l'indicazione dei fatti materiali tenuti in considerazione e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente in base a quali calcoli è stato determinato l'ammontare del risarcimento (così, tra le tante, Sez. 6, n. 48086 del 12/09/2018, B., Rv. 274229).


Quanto alle spese legali relative alla difesa della parte civile, nell'atto di appello difettava la prospettazione di qualsivoglia specifica doglianza che dovesse impegnare la Corte territoriale a adottare una articolata risposta; mentre per le spese legali riferibili al secondo grado del giudizio di merito, la condanna dell'imputato alla relativa rifusione, quantificata in misura tutt'altro che arbitraria o sproporzionata, è stata censurata con il ricorso in termini aspecifici.


7. Segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e ciascuno a quella di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si stima equo fissare nella misura indicata in dispositivo.


I ricorrenti vanno, altresì, condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Agenzia delle entrate, che, in ragione dell'attività defensionale effettivamente svolta e degli aumenti percentuali operati in relazione alla pluralità delle controparti, si liquidano nella misura meglio precisata nel dispositivo che segue.


P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.


Condanna altresì i ricorrenti alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Agenzia delle entrate, spese che si liquidano in complessivi cinquemila Euro.


Così deciso in Roma, il 28 settembre 2021.


Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2021

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