Responsabilità medica penale
Con la sentenza n. 7849/22, la Quarta Sezione della Suprema Corte ha affermato che le raccomandazioni contenute nelle linee guida definite e pubblicate ai sensi della L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 5 - pur rappresentando i parametri precostituiti a cui il giudice deve tendenzialmente attenersi nel valutare l'osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia - non integrano veri e propri precetti cautelari vincolanti, capaci di integrare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto; ne consegue che, nel caso in cui tali raccomandazioni non siano adeguate rispetto all'obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente, l'esercente la professione sanitaria ha il dovere di discostarsene.
Di seguito si riporta il testo integrale della sentenza sopra richiamata.
Cassazione penale sez. IV, 03/02/2022, (ud. 03/02/2022, dep. 04/03/2022), n.7849
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza resa il 26 marzo 2021, la Corte d'appello di Torino ha confermato la condanna emessa dal Tribunale di Cuneo il 9 aprile 2019 a carico di A.M. alla pena ritenuta di giustizia e alle connesse statuizioni civili in solido con il responsabile civile Azienda Sanitaria Locale ASL (OMISSIS) - in relazione al delitto di omicidio colposo contestato come commesso in (OMISSIS) in danno di B.R.; con la stessa sentenza, la Corte torinese ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del coimputato P.G. per essere il medesimo delitto a lui ascritto estinto per morte dell'imputato, che era stato condannato dal Tribunale cuneese, al pari di B.A., che la Corte d'appello ha invece mandato assolta; era invece già stata assolta in primo grado L.N., per non aver commesso il fatto.
1.1. Brevemente riassumendo l'oggetto del processo, i fatti si collocano nella giornata del (OMISSIS) presso il reparto di ostetrica e ginecologia dell'Ospedale (OMISSIS), ove nelle prime ore della mattina B.R. si è ricoverata per partorire. Il parto avviene alle 10,24, senza particolari problemi; alle 11.10 viene praticata un'iniezione di ossitocina alla puerpera, onde favorire l'espulsione della placenta, che di regola dovrebbe avvenire entro un'ora dal parto; poiché però alle 11.20 la placenta non è ancora uscita, la d.ssa A. - ginecologa presso il reparto - e la L. - che vi presta servizio come ostetrica - iniziano ad eseguire sulla paziente due "spremiture alla Crede'"; nonostante ciò, permanendo il mancato secondamento, la d.ssa A. formula, alle 11.30, una diagnosi di "sospetta inversione del fondo uterino" e chiede l'intervento del collega Dott. P.; questi, eseguita un'ecografia, alle 11.40 conferma la diagnosi, attesta una "persistenza di perdite ematiche" e chiama un anestesista per narcotizzare la paziente, quindi completa l'estrazione della placenta con l'ausilio di una pinza tamponata e tenta manualmente di ricollocare l'utero in situ; alle 11.50 giunge l'anestesista d.ssa B. che constata lo stato di incoscienza della B. (la cui pressione è bassissima, 70/40), procede alla sedazione e somministra alla paziente due sacche di sangue O negativo, chiedendo inoltre al centro trasfusionale altre quattro sacche e plasma. Il marito della B., C.C., che era rimasto presente fino a quel momento, viene fatto allontanare. Alle 12.05 viene chiamata la d.ssa B., ginecologa che ha seguito la gravidanza della donna; costei, assieme al Dott. P., tenta di arginare l'emorragia e di interrompere la forza oppositrice dell'inversione uterina inserendo un "palloncino di Cook o di Bakri", ottenendo però un beneficio di breve durata; nel frattempo viene allertata la sala operatoria. Da quel momento in poi si cercano telefonicamente il Dott. Z., che non viene raggiunto, e il Dott. O., che si trova a Cuneo (ossia a 40 chilometri da (OMISSIS)) e viene raggiunto tra le 12.07 e le 12.10.
Alle 12.45 la paziente, intubata, è portata in sala operatoria per essere sottoposta a isterectomia totale; alle 12.50, essendo nel frattempo sopraggiunto il Dott. O., viene iniziata l'operazione. Alle 13.40, a intervento quasi ultimato, viene constatato l'arresto cardiaco e, nonostante i tentativi di rianimare la paziente, costei muore alle 14.46.
1.2. Dopo aver premesso che la linea guida considerata nel giudizio (prodotta dagli imputati) è la Linea Guida 26 - pubblicata sei mesi dopo i fatti, ma basata su leges artis già valide in quella data -, la Corte ha riassunto, in un'ampia narrativa, i contenuti salienti della sentenza di primo grado.
Invero, il Tribunale cuneese aveva constatato il mancato raggiungimento della prova che le manovre ginecologiche eseguite dalla A. e dalla L. (le c.d. spremiture alla Crede') fossero state praticate in modo improprio ed eccessivamente energico; di contro, si era ritenuto che l'isterectomia fosse stata praticata con eccessivo ritardo (con inizio alle 12.50) rispetto al momento in cui era stata accertata l'inversione del fondo uterino (11.30/11.40), date le condizioni in cui versava la paziente. Il ritardo, secondo il Tribunale, aveva avuto rilevanza eziologica sul decesso in quanto l'inversione uterina aveva provocato una massiva emorragia, dalla quale era derivato poi uno shock emorragico risultato fatale. Perciò la morte della paziente veniva ascritta alla d.ssa A. e al Dott. P., nonché alla d.ssa B., ritenuti responsabili del ritardo nell'esecuzione dell'isterectomia; mentre veniva esclusa al riguardo qualsiasi responsabilità della L..
1.3. A seguito degli appelli proposti dagli imputati e dal responsabile civile, si è instaurato il giudizio di secondo grado, nel corso del quale è stata disposta, su richiesta delle parti, una perizia affidata ai professori S.V. e D.V.G.. L'elaborato peritale è ampiamente riportato nella narrativa della sentenza d'appello; le conclusioni sono testualmente riprodotte a pagina 23 e depongono, in estrema sintesi, per la rilevabilità di negligenze e imprudenze nella fase del secondamento, tra cui ad esempio l'applicazione della ventosa "di compiacenza" per accelerare il parto, ciò che avrebbe reso necessario un management attivo del secondamento (trazione controllata del funicolo, somministrazione di uterotonici) più tempestivo rispetto a quanto fatto in concreto; tali negligenze e imprudenze, secondo i periti, predisposero all'insorgenza della CID (coagulopatia intravascolare disseminata), che rese inefficaci le cure rianimatorie e chirurgiche praticate alla paziente, sebbene i Periti non siano stati in grado di precisare se un approccio chirurgico più tempestivo avrebbe potuto evitare l'evoluzione letale. Vengono poi riportate diffusamente, nelle pagine successive, le affermazioni dei periti nel corso dell'esame in aula.
Alle pagine 32 - 33, la Corte illustra la questione delle linee guida, definite in generale come "raccomandazioni" e che non possono qualificarsi come regole cautelari a contenuto precettivo, non potendosi perciò porre un problema di determinatezza; al riguardo, mentre gli imputati hanno dichiarato di aver seguito la Linea 26 (revisione di linee guida pubblicate in precedenza), il responsabile civile ASL (OMISSIS) ha indicato la Linea Guida AGENAS del 2004, rispetto alla quale però, secondo la Corte di merito, gli imputati si sarebbero comunque discostati in diverse parti.
Sotto il profilo della colpa, la Corte di merito aderisce alla tesi peritale secondo la quale non fu fatto ricorso al management attivo del secondamento (e si attese il secondamento naturale per 40 minuti), pur a fronte dell'accertata atonia dell'utero, che è all'origine delle complicanze successive e che indusse la d.ssa A. a praticare un'iniezione di ossitocina solo alle 11.10: condotta, questa, censurata anche per le modalità e i quantitativi impiegati, inidonei a ottenere lo scopo perseguito (l'espulsione della placenta). Ulteriore profilo di colpa, sempre riconducibile alla d.ssa A., viene indicato nella tardività delle manovre di Crede', che dovevano essere eseguite nella prima mezz'ora dopo il parto, nell'ambito del c.d. management attivo e la cui tardività si tradusse - unitamente, forse, alle modalità esecutive - in un fattore di rischio per l'inversione uterina, stante anche il fatto che la B. era primipara. Anche l'esecuzione delle suddette manovre da parte della d.ssa A. senza copertura analgesica è stata censurata in relazione allo shock che esse determinarono sulla paziente. Al Dott. P. sono state invece attribuite, a titolo di colpa, le manovre volte a completare il secondamento mentre l'utero era ancora in stato di inversione, che peggiorarono ulteriormente l'emorragia della paziente compromettendone le condizioni generali. Nessuna delle condotte anzidette, conclude la Corte di merito, è rapportabile alle raccomandazioni della Linea Guida 26, né alle altre linee guida di riferimento, che risultano anzi tutte disattese; perciò non si è posto il problema di valutare il grado della colpa, peraltro stimato come grave. Sul piano causale (pp. 38 - 39), la Corte ha ritenuto che le improprie condotte sia omissive che commissive della A. e - da ultimo - del P., indicate dai periti e distoniche rispetto alle indicazioni delle linee guida, determinarono pacificamente l'insorgenza progressiva di una situazione divenuta non più recuperabile dopo oltre un'ora e mezza dal parto.
2. Avverso la prefata sentenza ricorrono A.M., gli eredi di P.G. e il responsabile civile Azienda Sanitaria Locale ASL (OMISSIS).
3. Il ricorso di A.M. consta di tre motivi.
3.1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione ai ritenuti profili di colpa dell'imputata. Contesta in primo luogo la ricorrente che le linee guida - come affermato dalla Corte territoriale non sarebbero delle "regole cautelari" e che quindi, in ambito medico, non sarebbe necessario verificare la violazione di una regola cautelare; di contro, obietta la deducente, è necessario che le opinioni dei periti e dei consulenti vengano verificate alla luce delle regole cautelari recepite dalla comunità scientifica di riferimento, sottolineando che, per affermare la configurabilità di un reato colposo, occorre sempre accertare la violazione di una regola cautelare che venga chiaramente individuata e sia conosciuta ai soggetti che esercitano una specifica attività professionale. Spetta all'accusa indicare la linea guida alla cui stregua essa ritenga doversi valutare la condotta del sanitario, ciò che non è avvenuto nel caso di specie, in cui non sono state prodotte linee guida antecedenti ai fatti per cui si procede.
3.2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge anche processuale e vizio di motivazione con riguardo alla valutazione della perizia: quella disposta dalla Corte di merito sconta gli stessi vizi della sentenza di primo grado e non consente la precisa comprensione e ricostruzione dei fatti. Nella specie, i periti hanno esaminato linee guida successive ai fatti di causa e non quelle esistenti al momento della condotta dei sanitari incolpati, per cui la perizia è inutilizzabile.
3.3. Con il terzo motivo si denunciano violazione di legge, anche processuale, e vizio di motivazione con riguardo al fatto che la Corte di merito ha emesso condanna in relazione a un fatto diverso da quello addebitato. Riassumendo le indicazioni dei periti sulla base delle quali è stata ritenuta la responsabilità della d.ssa A., si fa riferimento alla mancata adozione di un management attivo del secondamento; alla somministrazione, alle 11.10, di farmaci volti a favorire l'espulsione della placenta con modalità e quantitativi che non trovano corrispondenza nelle linee guida; all'adozione di manovre di rimozione della placenta tardive e improprie; al mancato affiancamento, a tali manovre, di una copertura analgesica; al fatto di aver tentato di ridurre l'inversione in un ambiente improprio, che non consentiva il monitoraggio dei parametri vitali della paziente. Ciò a fronte del fatto che alla A. era contestato: 1) di avere eseguito in modo erroneo le manovre di Crede' provocando così l'inversione uterina; 2) di avere posto in essere - unitamente al Dott. P. - manovre ginecologiche incongrue omettendo di procedere all'isterectomia. Riportando alcuni passaggi della sentenza di primo grado, la ricorrente conclude che dal primo profilo la d.ssa A. era stata assolta dal Tribunale di Cuneo, né la perizia successivamente disposta ha modificato il giudizio (evidenziando la carenza di certezza o di probabilità logica della portata salvifica di un più tempestivo approccio chirurgico); quanto al secondo profilo la perizia in appello ha concluso per l'assenza di condotta imputabile sia sotto il profilo del nesso causale, sia sotto il profilo della colpa. Di contro, la Corte di merito ha ritenuto ravvisabili altri profili di responsabilità: in particolare, secondo i giudici dell'appello, l'impiego della ventosa nella fase finale del parto era sintomatico di un'atonia dell'utero, con conseguente rischio di emorragia o inversione dell'utero, ciò che avrebbe reso necessario un management attivo del secondamento (soluzione che, secondo la Corte territoriale, sarebbe stata salvifica). La tesi difensiva e', invece, che l'uso della ventosa "di compiacenza", benché non previsto dalle linee guida, non è indice automatico dell'assenza di contrazioni dell'utero e spesso si usa per accelerare il parto nelle fasi finali; quindi, conclude la ricorrente, non può affermarsi che il parto della vittima fosse distocico. Inoltre, e soprattutto, la ricostruzione operata dai periti in appello ha determinato l'emersione di un fatto nuovo, o comunque diverso, mai contestato prima, presentando lo stesso connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria.
4. Il ricorso presentato per conto degli eredi di P.G. ( M.M., P.A.C. ed P.E.) consta di due motivi.
4.1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al fatto che i giudici dell'appello hanno constatato l'estinzione del reato per morte dell'imputato senza considerare l'intervenuta prova della sua non colpevolezza: richiamato l'oggetto degli addebiti mossi al P., i deducenti evidenziano che la sua responsabilità era stata ravvisata dal Tribunale unicamente in relazione all'addebito di avere proceduto con ritardo all'effettuazione dell'intervento di isterectomia: addebito di cui però i periti nominati in appello escludono la fondatezza, reputando che non sia possibile precisare, sul piano della certezza o della elevata probabilità logico razionale, se un approccio chirurgico più tempestivo avrebbe scongiurato l'evoluzione esiziale. Perciò, risultando evidente l'insussistenza del fatto, i giudici dell'appello avrebbero dovuto pronunziare sentenza assolutoria, ancorché in presenza di una causa estintiva del reato.
4.2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla ritenuta responsabilità del P. per un fatto diverso da quello contestato: la questione è similare a quella prospettata con il terzo motivo di ricorso della d.ssa A., con l'avvertenza che nel caso del Dott. P. il profilo colposo ravvisato a suo carico dai giudici dell'appello, e del tutto diverso dall'oggetto dell'imputazione, è quello di avere tentato di completare il secondamento mentre l'utero era ancora in stato di inversione, in ambiente improprio che non consentiva il monitoraggio dei parametri vitali della paziente.
5. Il responsabile civile Azienda Sanitaria Locale ASL (OMISSIS), per il tramite del suo patrono di fiducia, propone un ricorso articolato in quattro motivi.
5.1. I primi tre motivi ricalcano argomenti già proposti nei ricorsi della A. e degli eredi P. (ai quali pertanto può farsi rinvio) e, precisamente:
Il primo, dedotto per violazione di legge e vizio di motivazione, con riguardo ai profili di colpa degli imputati, alla natura di regole cautelari che la Corte di merito non ha riconosciuto alle linee guida e alla mancata valutazione di linee guida già vigenti al momento del fatto (vds. primo motivo ricorso A.);
Il secondo motivo, dedotto per violazione di legge anche processuale e per vizio di motivazione, attinente alla valutazione della perizia elaborata in appello (vds. secondo motivo ricorso A.);
Il terzo motivo, dedotto anch'esso per violazione di legge anche processuale e per vizio di motivazione, attinente alla ritenuta diversità del fatto accertato in appello - del quale gli imputati sono stati ritenuti responsabili - rispetto a quello oggetto dell'imputazione e a quello ritenuto dal giudice di primo grado (vds. terzo motivo ricorso A. e secondo motivo ricorso eredi P.).
5.2. Con il quarto motivo, invece, si denunciano violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo al fatto che la provvisionale liquidata in favore delle parti civili, e confermata in appello, è stata riconosciuta pur in assenza di una prova del danno. Richiamati i principi affermati in materia dalla giurisprudenza, l'Ente ricorrente lamenta, in estrema sintesi, la carenza argomentativa della sentenza impugnata sul punto, a proposito del riconoscimento del risarcimento per danno non patrimoniale sulla sola base del rapporto parentale, riconoscimento che non può essere operato in re ipsa, ossia sulla sola base della lesione del diritto, dovendosi accertare anche le conseguenze dannose che questo ha comportato. Nella specie, il quantum debeatur è stato determinato senza un'analitica indicazione delle voci descrittive del danno non patrimoniale, nonché in prossimità dei massimi delle c.d. tabelle milanesi, per di più a carico di una Pubblica amministrazione che dovrebbe provvedere al risarcimento con mezzi propri e non per via assicurativa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Gli argomenti oggetto dei ricorsi riguardano, in sintesi, i seguenti profili della decisione impugnata:
In primo luogo, il profilo della qualificabilità o meno delle linee guida (accreditate dalla comunità scientifica in relazione alla tipologia di prestazioni sanitarie oggetto del presente giudizio) come "regole cautelari", alla stregua delle valutazioni formulate sul punto dalla Corte territoriale; il profilo di che trattasi è affrontato nel primo motivo del ricorso A. e nel primo motivo del ricorso del responsabile civile;
In secondo luogo, il profilo - in qualche modo collegato a quello che precede - dell'impiego, nelle valutazioni peritali in sede d'appello, di linee guida pubblicate in data successiva ai fatti per cui si procede: profilo, questo, esaminato nel secondo motivo dei ricorsi dell'imputata A. e del responsabile civile;
In terzo luogo, il profilo della condanna degli imputati da parte della Corte d'appello, in esito alla perizia dei professori S. e D.V., per condotte eterogenee rispetto a quelle descritte nell'editto imputativo, come tali integranti un "fatto diverso" rispetto a quello contestato, con conseguente lesione del diritto di difesa, laddove l'esclusione degli addebiti formulati con l'imputazione avrebbe dovuto condurre a un esito assolutorio: il profilo in esame è affrontato nel terzo motivo dei ricorsi della d.ssa A. e del responsabile civile, nonché nel secondo motivo di ricorso degli eredi P.;
In quarto luogo, il profilo riguardante la formula di proscioglimento del P. (primo motivo del ricorso degli eredi del detto imputato), in cui si sostiene che, pur a seguito della morte dell'imputato, doveva assolversi lo stesso nel merito, secondo quanto emerso nel giudizio;
In quinto luogo, il profilo denunciato nel quarto motivo del ricorso del responsabile civile Azienda Sanitaria Locale ASL (OMISSIS), riguardante il riconoscimento e la liquidazione di una provvisionale in assenza di una puntuale indicazione del danno.
2. Così riassunte le questioni proposte dai ricorrenti, deve premettersi, quanto al ricorso degli eredi del Dott. P., che esso è affetto da inammissibilità, essendo pacificamente inammissibile l'impugnazione proposta dagli eredi dell'imputato dopo la morte di quest'ultimo (cfr. ex multis Sez. 3, Sentenza n. 42728 del 15/10/2008, Cacciolatto, Rv. 241413): ed invero, vale la regola in base alla quale nessun rimedio processuale può essere proposto da terzi, ancorché eredi, stante la previsione dell'art. 568, comma 3, per la quale il diritto di impugnazione spetta solo a colui al quale la legge espressamente lo conferisce (cfr., in via di principio, Sez. 5, Sentenza n. 15282 del 08/11/2016, dep. 2017, Arena e altri, Rv. 269695; Sez. 2, Sentenza n. 25738 del 20/03/2015, Albini e altri, Rv. 264136; Sez. 4, Sentenza n. 49457 del 08/01/2003, Paolillo, Rv. 227069). Quanto al difensore dell'imputato, sebbene egli abbia un autonomo potere di impugnazione, la sua legittimazione ad impugnare viene meno con la morte dell'imputato medesimo (Sez. 3, Sentenza n. 23935 del 25/03/2021, M., Rv. 281850). E' peraltro appena il caso di dire che tale profilo assorbe quello dell'assoluta carenza, in capo agli stessi eredi, di un interesse attuale e concreto all'impugnazione (cfr. in linea di principio Sez. 4, Sentenza n. 49457 del 08/01/2003, Paolillo, cit.), ancor più se si considera che il ricorso da loro presentato attiene esclusivamente ai capi penali.
Fatta questa premessa, può procedersi di seguito all'esame delle questioni proposte dai ricorrenti.
3. La prima questione attiene, essenzialmente, alla qualificabilità o meno delle linee guida come regole cautelari.
In proposito, l'infondatezza dei ricorsi che propongono tale questione si comprende agevolmente attraverso un opportuno chiarimento della natura e delle finalità delle linee guida in campo sanitario.
3.1. Nell'ambito del procedimento penale, per l'indicazione della condotta doverosa in campo sanitario (ossia del comportamento ideale che l'esercente la professione sanitaria dovrebbe tenere in relazione a ciascuna singola attività), si pone la necessità di ricercare le leges artis che contengono le raccomandazioni operative, per i sanitari, in relazione alle diverse tipologie di attività a loro affidate e di cui dev'essere anche valutata la pertinenza in relazione al singolo caso concreto; a tal fine ci si avvale tradizionalmente delle opinioni di periti e consulenti, i quali sono chiamati a fornire elementi conoscitivi e chiarimenti in funzione della verifica giudiziale dell'adeguatezza della condotta dell'esercente la professione sanitaria. In definitiva, viene in larga parte affidata al contributo di esperienza e di sapere scientifico di soggetti qualificati l'indicazione, nei singoli casi concreti, del c.d. comportamento alternativo diligente che l'agente modello (ossia, come un tempo comunemente si affermava, il professionista sanitario che agisce "secondo la migliore scienza ed esperienza") avrebbe dovuto tenere nelle medesime condizioni.
Le valutazioni degli esperti sulla pertinenza e sull'adeguatezza delle cure praticate nei singoli casi si fondano essenzialmente sull'individuazione, in modo sufficientemente oggettivo e preciso, di criteri descrittivi del parametro comportamentale del sanitario che, da un lato, consentano di seguire prassi condivise e approvate in sede scientifica in relazione alle più varie attività mediche, infermieristiche o chirurgiche (e, contemporaneamente, di rendere "controllabile" l'osservanza di quelle prassi da parte dell'utenza); e, dall'altro, consentano di stabilire se e in che misura gli eventuali scostamenti da tali criteri implichino la responsabilità dell'operatore sanitario (o, a certe condizioni, dell'organizzazione sanitaria di riferimento) per danni cagionati al paziente.
Lo strumento per definire in modo (per quanto possibile) omogeneo i criteri comportamentali dei sanitari nelle diverse situazioni è costituito da previsioni a carattere generale (ancorché talora molto articolate e minuziose) elaborate a livello scientifico e/o operativo, variamente definite e caratterizzate: ossia, a seconda dei casi, dalle linee guida, dai protocolli e dalle "best practices".
3.2. Nell'esperienza italiana, fatta salva la (tutt'altro che sporadica) possibilità di indicazioni operative anche assai dettagliate, le linee guida sono qualificate come raccomandazioni di ordine generale, rispetto alle quali tuttavia resta salva la libertà di scelta professionale (e la responsabilità) del sanitario nel rapportarsi al caso concreto, nelle sue molteplici varianti e peculiarità e nel rispetto della c.d. "relazione terapeutica" (o, come altri dice, "alleanza terapeutica") tra medico e paziente. Invero, l'approccio al problema non può non tenere conto della portata multilivello delle prassi sanitarie potenzialmente incidenti sui risultati dell'attività diagnostico-terapeutica: entrano in gioco le attività proprie del medico generico o specialista, così come quelle del chirurgo o come quelle prettamente infermieristiche; ma ne sono interessati anche i profili organizzativi (e anche economici) delle strutture sanitarie, nei loro diversi gradi di complessità. Inoltre, e soprattutto, non tutti i pazienti sono uguali, né è necessariamente uguale la loro risposta alla medesima terapia, anche se identica è la patologia che li affligge; e ciò, a talune condizioni, comporta necessariamente un adattamento delle "regole d'ingaggio" al caso concreto e alle variabili che, nell'ambito di esso, entrano in gioco e suggeriscono di attenersi in misura maggiore o minore a "protocolli" e "linee guida", o addirittura impongono in certi casi di discostarsene.
Di qui la natura delle linee guida come regole di massima flessibili ed adattabili alle specificità del caso concreto. Anche per questo, l'approccio giurisprudenziale tradizionale si è sempre mostrato tendenzialmente cauto: la Suprema Corte si esprime da tempo nel senso di non considerare le linee-guida come idonee a esaurire le regole di condotta sanitaria in rapporto a ogni singolo caso concreto; si afferma che, nel praticare la professione sanitaria, "il medico deve, con scienza e coscienza, perseguire un unico fine: la cura del malato utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo dispone la scienza medica, senza farsi condizionare da esigenze di diversa natura, da disposizioni, considerazioni, valutazioni, direttive che non siano pertinenti rispetto ai compiti affidatigli dalla legge ed alle conseguenti relative responsabilità". Il rispetto delle "linee guida" non può insomma essere univocamente assunto quale parametro di riferimento della legittimità e di valutazione della condotta del medico; e quindi "nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate né all'autonomia ed alla responsabilità del medico nella cura del paziente". Pertanto, "non può dirsi esclusa la responsabilità colposa del medico in riguardo all'evento lesivo occorso al paziente per il solo fatto che abbia rispettato le linee guida, comunque elaborate, avendo il dovere di curare utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo la scienza medica dispone" (così si esprimeva Sez. 4, n. 8254 del 23/11/2010 - dep. 2011, Grassini).
3.3. Progressivamente, peraltro, si è palesato il rischio che previsioni troppo stringenti in tema di attività medica - tali cioè da esercitare una pressione particolarmente incisiva sulle condotte diagnostiche, terapeutiche o profilattiche tenute dai sanitari - potessero spingere verso comportamenti di eccessiva e sovrabbondante cautela (e talora potenzialmente controproducenti), ispirati cioè alla cosiddetta "medicina difensiva".
Gli interventi legislativi di questi ultimi anni (dapprima la Legge Balduzzi, da ultimo la Legge Gelli-Bianco) hanno in qualche misura cercato di recepire le istanze del personale sanitario tese a modulare e circoscrivere i termini della responsabilità professionale (anche attraverso il contrasto al fenomeno della medicina difensiva).
Con l'entrata in vigore della L. n. 189 del 2012 (legge di conversione, con modifiche, del D.L. n. 158 del 2012, c.d. Decreto Balduzzi), il legislatore ha introdotto una sostanziale modifica alle previsioni che fino ad allora avevano regolato la responsabilità penale in campo sanitario, prevedendo fra l'altro, all'art. 3, comma 1, che "l'esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve".
Dopo appena cinque anni, la c.d. Legge Gelli - Bianco (L. n. 24 del 2017) è nuovamente intervenuta a disciplinare la responsabilità dei sanitari sul piano sia civile che penale. Di notevole interesse, per ciò che qui rileva, è quanto stabilito dall'art. 5 della legge: la norma (al comma 1) obbliga infatti gli esercenti le professioni sanitarie - nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale - ad attenersi, "salve le specificità del caso concreto", alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi dello stesso art. 5, comma 3 elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con un emanando decreto del Ministro della salute (sulla base dei criteri di cui al successivo comma 2), da aggiornare con cadenza biennale. Viene poi precisato che, in mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si dovranno attenere "alle buone pratiche clinico-assistenziali". A tale disposizione fa riscontro l'art. 6 della legge, che introduce un nuovo articolo nel codice penale: l'art. 590-sexies (recante "Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario"), che così recita: "1. Se i fatti di cui agli artt. 589 e 590 sono commessi nell'esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal comma 2". "2. Qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto".
3.4. Ora, venendo al caso di specie, va precisato in primo luogo che, come correttamente chiarito dalla Corte di merito, la disciplina legislativa applicabile in ordine alla vicenda di che trattasi è certamente quella di cui alla Legge Balduzzi, che era in vigore al momento dei fatti per cui si procede e che la giurisprudenza apicale di legittimità - secondo la puntuale ricostruzione offerta al riguardo dalla sentenza impugnata - indica come più favorevole rispetto all'art. 590-sexies c.p., successivamente introdotto dalla L. n. 24 del 2017, sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve da negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto (Sez. U, Sentenza n. 8770 del 21/12/2017, dep. 2018, Mariotti, Rv. 272175).
Ma, a parte tale aspetto, l'excursus normativo che precede rende evidente che il legislatore (anche nella Legge Gelli - Bianco, che pure, all'art. 5 prevede una sorta di "catalogazione" - più che di "codificazione" - delle linee guida) ha ben presente il problema dell'adeguatezza delle linee guida alle "specificità del caso concreto".
3.5. Del resto, se si esaminano i contributi giurisprudenziali successivi alla Legge Balduzzi, ed anche quelli successivi alla Legge Gelli - Bianco, balzano agli occhi le peculiarità delle linee guida (dei protocolli, delle buone prassi ecc.) come criteri indicativi della condotta del sanitario, utilizzabili - per quanto in particolare interessa in questa sede - ai fini della verifica processuale di tale condotta.
Ad esempio, in Sez. 4, n. 24455 del 22/04/2015, Plataroti e altri, la Suprema Corte ha affermato che il rispetto di linee guida accreditate presso la comunità scientifica non determina, di per sé, l'esonero dalla responsabilità penale del sanitario (ai sensi del previgente Legge Balduzzi, art. 3, comma 1), dovendo comunque accertarsi se la specificità del quadro clinico del paziente imponesse un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato da dette linee guida; in detta pronunzia si è riconosciuto da un lato che "un'esasperata procedimentalizzazione dell'attività diagnostico-terapeutica possa fatalmente indurre una pericolosa deriva "legalistica" dell'attività medica, con erosione degli spazi di discrezionalità individuale ed effetti di deresponsabilizzazione", a detrimento della nozione di "scienza medica come pratica clinica, insofferente al rigore delle astrazioni, rispetto all'immediata e concreta normatività del caso concreto: una condizione che rende ineliminabile la dimensione della cd. libertà di cura, più appropriatamente definibile come "responsabilità di cura" del singolo professionista". Dall'altro, però, si è osservato che "una simile deriva "legalistica" deve ritenersi, tuttavia, scongiurata alla luce dei principi che proprio la giurisprudenza di legittimità, anche da ultimo, ha ribadito con riguardo alle forme attraverso le quali il giudice di merito è chiamato a costruire i propri modelli di imputazione soggettiva del fatto, ossia muovendo dal confronto "critico" del parametro scientifico fornito dalle linee guida con le specificità del caso clinico, le singolarità della vicenda concreta, l'anamnesi o la storia clinica del paziente e i motivi di originalità e irripetibilità che, con riguardo a ciascuna vicenda esistenziale esaminata, esigono dal singolo professionista piena considerazione e ineludibile rispetto"; e si è evidenziato come "l'arte medica, mancando per sua stessa natura di protocolli scientifici a base matematica, spesso prospetti diverse pratiche o soluzioni che l'esperienza ha dimostrato efficaci, da scegliere oculatamente in relazione a una cospicua serie di varianti che, legate al caso specifico, solo il medico nella contingenza della terapia, può apprezzare. Questo concetto, di libertà nelle scelte terapeutiche del medico, è un valore che non può essere compromesso a nessun livello, né disperso per nessuna ragione, pena la degradazione del medico a livello di semplice burocrate, con gravi rischi per la salute di tutti".
Già in precedenza, peraltro, la Corte di legittimità (Sez. 4, Sentenza n. 16237 del 29/01/2013, Cantore) riconosceva che "le direttive di cui si discute non sono in grado di offrire standard legali precostituiti; non divengono, cioè, regole cautelari secondo il classico modello della colpa specifica: da un lato la varietà ed il diverso grado di qualificazione delle linee guida; dall'altro, soprattutto, la loro natura di strumenti di indirizzo ed orientamento, privi della prescrittività propria di una regola cautelare, per quanto elastica"; e che, insomma, "per il terapeuta come per il giudice, le linee guida non costituiscono uno strumento di precostituita, ontologica affidabilità". Quindi, enunciava un principio che fornisce un utile spunto interpretativo anche nell'assetto successivamente delineato dalla Legge Gelli-Bianco: ossia che "potrà ben accadere che il professionista si orienti correttamente in ambito diagnostico o terapeutico, si affidi cioè alle strategie suggeritegli dal sapere scientifico consolidato, inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali e tuttavia, nel concreto farsi del trattamento, commetta qualche errore pertinente proprio all'adattamento delle direttive di massima alle evenienze ed alle peculiarità che gli si prospettano nello specifico caso clinico. In tale caso, la condotta sarà soggettivamente rimproverabile, in ambito penale, solo quando l'errore sia non lieve. Non solo. Potrà pure accadere che, sebbene in relazione alla patologia trattata le linee guida indichino una determina strategia, le già evocate peculiarità dello specifico caso suggeriscano addirittura di discostarsi radicalmente dallo standard, cioè di disattendere la linea d'azione ordinaria. Una tale eventualità può essere agevolmente ipotizzata, ad esempio, in un caso in cui la presenza di patologie concomitanti imponga di tenere in conto anche i rischi connessi alle altre affezioni e di intraprendere, quindi, decisioni anche radicalmente eccentriche rispetto alla prassi ordinaria. Anche in tale ambito trova applicazione la nuova normativa".
3.6. Gli arresti giurisprudenziali più recenti - successivi all'entrata in vigore della Legge Gelli - Bianco - fanno tesoro di queste indicazioni, del tutto in linea con la natura peculiare riconosciuta alle linee - guida, affermando ad esempio che le raccomandazioni contenute nelle linee guida definite e pubblicate ai sensi della L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 5 - pur rappresentando i parametri precostituiti a cui il giudice deve tendenzialmente attenersi nel valutare l'osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia - non integrano veri e propri precetti cautelari vincolanti, capaci di integrare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto; ne consegue che, nel caso in cui tali raccomandazioni non siano adeguate rispetto all'obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente, l'esercente la professione sanitaria ha il dovere di discostarsene (vds. la già citata Sez. U, Sentenza n. 8770 del 21/12/2017, dep. 2018, Mariotti, Rv. 272176).
3.7. Da tale ampia disamina, che evidenzia le peculiarità delle leges artis in campo medico anche alla luce degli apporti giurisprudenziali, risulta chiara l'adesione del percorso argomentativo della sentenza impugnata alla nozione di "linee guida" ormai pacificamente affermatasi nel nostro ordinamento; viceversa non può, all'evidenza, ricavarsi ciò che i ricorrenti sembrano sottintendere, ossia che la Corte di merito avrebbe escluso tout court che le linee guida abbiano natura di "regole cautelari". Ciò che invece ha, evidentemente (e del tutto correttamente, in base a quanto precede), inteso affermare la Corte torinese è che alle linee guida non può essere riconosciuto un "carattere precettivo" come quello delle regole cautelari "codificate", poste a base di forme di colpa specifica e contenute in disposizioni normative (vds. pag. 32 sentenza impugnata, p. 6.2), restando tuttavia fermo che, sul piano orientativo - e fatte salve le peculiarità e le specificità di ogni singola vicenda -, le raccomandazioni contenute nelle linee guida forniscono un'indicazione di quello che, astrattamente, sarebbe il comportamento doveroso del sanitario; tant'e' che, sia nella Legge Balduzzi (su un piano generale) che nella Legge Gelli - Bianco (nel solo caso di imperizia, alla luce di quanto affermato da SS.UU. Mariotti), l'adesione alle linee guida comporta una elevazione del grado della colpa rilevante a fini penali. In tal senso può bensì parlarsi, genericamente ed impropriamente, di "regole" cautelari, ma se ne deve categoricamente escludere - come fa, appunto, la Corte di merito - il carattere precettivo proprio delle regole normative, rispetto alle quali le linee guida si distinguono per un più ampio margine di flessibilità rispetto alle peculiarità del caso concreto.
Il punto è che le censure all'impostazione seguita in proposito dalla sentenza impugnata non tengono conto che tale impostazione era chiaramente finalizzata a replicare a un argomento difensivo (proposto in particolare nell'appello del responsabile civile) anch'esso privo di fondamento, con il quale si sosteneva che le linee guida difettassero di "determinatezza": nozione che, in realtà, è del tutto estranea ad esse, in quanto riferibile a precetti o prescrizioni aventi carattere normativo.
4. Quanto alle lagnanze dei ricorrenti riferite al secondo profilo - quello dell'impiego, nelle valutazioni peritali in sede d'appello, di linee guida pubblicate in data successiva ai fatti per cui si procede -, esse sono parimenti infondate, in quanto frutto di un evidente fraintendimento dell'assunto sostenuto dalla Corte di merito: sempre a pagina 32 della sentenza impugnata (p. 6.3), viene chiarito che sono stati gli stessi imputati ad affermare di aver seguito la Linea Guida 26, riguardo alla quale la Corte di merito osserva che essa, benché pubblicata in epoca successiva ai fatti oggetto del processo, costituisce null'altro che "una revisione di linee guida pubblicate in precedenza: d'altra parte, non si capirebbe come altrimenti gli imputati avrebbero potuto applicarla" e, del resto, "a pag. 20 della Linea Guida 26 si legge che il "panel" scientifico che ha elaborato tale raccomandazione "ha concordato di scegliere come documento di riferimento la Linea Guida NICE pubblicata a dicembre 2014", ovvero una delle linee guida esplicitamente indicate dai Periti come loro fonti principali" (p. 33 sentenza impugnata). Tali osservazioni, così come quelle successivamente formulate dalla Corte di merito, rendono evidente, da un lato, la valutazione espressa dalla Corte distrettuale nel senso dell'inottemperanza dei sanitari, con le loro condotte, rispetto a tutte le diverse linee guida individuate e prese in esame dai periti (compresa, fra l'altro, la linea guida AGENAS del 2004, indicata dal Responsabile civile, che a parere della Corte di merito "contiene in diverse parti raccomandazioni alle quali gli imputati non si sono attenuti"); dall'altro, più in generale, evidenziano l'infondatezza dell'argomento dei ricorrenti secondo cui le linee guida poste a base della pronunzia sarebbero inutilizzabili in quanto successive al momento della condotta dei sanitari.
5. Lasciando per ora in disparte il terzo e il quarto profilo oggetto delle censure dei ricorrenti, si affronta brevemente il quinto profilo, quello avente ad oggetto il riconoscimento e la liquidazione della provvisionale in favore delle parti civili, che secondo il responsabile civile sarebbero intervenuti in assenza di una puntuale indicazione del danno.
La censura in esame è manifestamente infondata e non proponibile in questa sede di legittimità. E', infatti, sufficiente (e dirimente) osservare che è ius receptum il principio secondo il quale non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata (Sez. 3, Sentenza n. 18663 del 27/01/2015, D.G., Rv. 263486; Sez. 2, Sentenza n. 44859 del 17/10/2019, Tuccio, Rv. 277773; Sez. 4, Sentenza n. 34791 del 23/06/2010, Mazzamurro, Rv. 248348). Ciò esime dall'affrontare il tema del percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito circa le ragioni giustificatrici delle statuizioni civili adottate nella specie, peraltro diffusamente illustrate.
6. Possiamo, a questo punto, affrontare il tema proposto in relazione al terzo profilo, costituito dalla questione della ritenuta difformità fra i fatti oggetto di accusa e quelli per i quali è intervenuta condanna: difformità, si ripete, denunciata nel terzo motivo dei ricorsi della d.ssa A. e del Responsabile civile ASL (OMISSIS) (oltreché nel secondo motivo del ricorso eredi P., della cui inammissibilità si è detto).
Si premette che anche questi motivi si reputano infondati.
I termini della questione, enunciati nella parte in fatto, risultano affatto chiari: i ricorrenti rilevano diversità tra le condotte descritte nell'editto imputativo (e tra le condotte ascritte agli imputati con la sentenza di primo grado) e quelle, enucleate in particolare dai periti nominati in appello, sulle quali la Corte di merito ha formato il proprio convincimento di colpevolezza della d.ssa A. e del Dott. P..
Conviene, a tale riguardo, muovere dai principi generali che regolano la questione della correlazione tra accusa e sentenza.
6.1. Si afferma in dottrina che il principio espresso dall'art. 521 c.p.p. (alla cui violazione si estende la sanzione della nullità di cui all'art. 522 codice di rito) muove dall'esigenza di garantire all'imputato il pieno esercizio del diritto di difesa, nel senso che la decisione emessa dal giudice deve costituire espressione di imparzialità e non deve evadere dall'oggetto del giudizio sul quale le parti si siano confrontate nel pieno contraddittorio; nello stesso ambito del codice sono previsti i meccanismi per assicurare la tenuta di tali principi (sulla base, ad esempio, delle prove assunte in dibattimento, che possono indurre il pubblico ministero a modificare l'imputazione alla luce dell'emersione - rispetto all'enunciato imputativo - di fatti diversi, eventualmente comportanti uno spostamento di competenza, o di reati connessi o circostanze aggravanti o di fatti nuovi: vds. artt. 516,517,518 c.p.p.); vi sono anche, insiti nello stesso art. 521 (in specie al comma 1), gli strumenti che consentono al giudice - a determinate condizioni - di procedere, senza previo contraddittorio con le parti, all'adeguamento del fatto alla corretta qualificazione giuridica, fermo restando tuttavia il meccanismo di cui al capoverso dello stesso art. 521, in base al quale la diversità del fatto rispetto alla contestazione, rilevata dal giudice, implica che questi debba disporre con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero.
Naturalmente in tanto è implicato in questo principio il corretto esplicarsi del diritto di difesa, in quanto questo sia reso compiutamente possibile dalla puntuale perimetrazione del fatto che ne deve formare oggetto. Fa peraltro parte, ovviamente, della fisiologia del processo la possibilità che il fatto oggetto di addebito subisca delle precisazioni, od anche delle modifiche nei contorni tracciati dall'imputazione, la quale peraltro rimane la base sulla quale chi accusa deve portare argomenti a sostegno della propria tesi e l'accusato è chiamato a impostare la propria difesa. L'eventuale mutamento di tale base nel corso del giudizio - e, in specie, dell'istruzione dibattimentale - comporta perciò, nella logica del codice, gli adattamenti approntati dallo stesso legislatore codicistico, dei quali si è detto.
6.2. Venendo, quindi, più direttamente alla disamina concernente i caratteri del fatto emerso nel corso del processo rispetto a quelli del fatto enunciato nell'imputazione, il giudizio di "identità" o "diversità" fra i due fatti, secondo il formante giurisprudenziale, è stato declinato con caratteri che, sommariamente, vengono distinti tra elementi essenziali ed elementi accidentali del fatto: distinzione in base alla quale solo i primi, e non i secondi, determinerebbero il mutamento del fatto in termini tali da trasformarlo in un fatto "diverso" rispetto a quello contestato, così da incidere sull'esercizio del diritto di difesa.
6.3. Si e', ad esempio, precisato in giurisprudenza che il rispetto della regola del contraddittorio - che deve essere assicurato all'imputato, anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto, conformemente all'art. 111 Cost., comma 2, integrato dall'art. 6 Convenzione Europea, come interpretato dalla Corte EDU - impone esclusivamente che detta diversa qualificazione giuridica non avvenga "a sorpresa" e cioè nei confronti dell'imputato che, per la prima volta e, quindi, senza mai avere la possibilità di interloquire sul punto, si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali rispetto all'originaria imputazione, di cui rappresenti uno sviluppo inaspettato (Sez. 5, Sentenza n. 7984 del 24/09/2012, dep. 2013, Jovanovic e altro, Rv. 254649). In precedenza si era pure affermato che le norme che disciplinano le nuove contestazioni, la modifica e la correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza, hanno lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell'accusa, e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell'imputato. Ne consegue che le stesse non debbono essere interpretate in senso rigorosamente formale ma con riferimento alle finalità alle quali sono dirette; e, quindi, le dette norme non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all'accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui l'imputazione venga mutata nei suoi elementi essenziali sì da determinare incertezza e pregiudicare il concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. 6, Sentenza n. 2642 del 14/01/1999, Catone, Rv. 212803).
6.4. Un fondamentale chiarimento dei termini della questione si è peraltro avuto con la sentenza a Sezioni Unite Carelli del 2010, secondo la quale, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U, Sentenza n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).
6.5. Un cenno va pure dedicato alla distinzione tra "fatto nuovo" e "fatto diverso" (la cui emersione rileva in particolare ai fini, rispettivamente, di quanto previsto dagli artt. 518 e 516 c.p.p.): si è recentemente ribadito che per "fatto nuovo" si intende un fatto ulteriore ed autonomo rispetto a quello contestato, ossia un episodio storico che non si sostituisce ad esso, ma che eventualmente vi si aggiunge, affiancandolo quale autonomo thema decidendum; per "fatto diverso", invece, deve intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato (Sez. 4, Sentenza n. 10149 del 15/12/2020, dep. 2021, Varani, Rv. 280938; Sez. 3, Sentenza n. 8965 del 16/01/2019, Mattaboni, Rv. 275928).
Si è inoltre affermato che il principio di correlazione tra imputazione e sentenza risulta violato quando nei fatti, rispettivamente descritti e ritenuti, non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, in rapporto di eterogeneità ed incompatibilità, rendendo impossibile per l'imputato difendersi (da ultimo vds. Sez. 3, Sentenza n. 7146 del 04/02/2021, Ogbeifun, Rv. 281477).
6.6. Il problema della menomazione dell'esercizio del diritto di difesa si è posto in termini peculiari con riguardo ai reati colposi. Qui come altrove, peraltro, si assume che il principio di correlazione tra accusa e sentenza non è violato qualora l'imputato abbia avuto modo, in concreto, di apprestare in modo completo le sue difese in relazione ad ogni possibile profilo dell'addebito: su tali premesse, si è affermato che la violazione del principio non sussiste laddove, a fronte di una contestazione di condotta omissiva, sia emersa in dibattimento la natura anche commissiva del comportamento dell'imputato (Sez. 4, Sentenza n. 7026 del 15/10/2002, dep. 2003, Loi e altri, Rv. 223747; Sez. 4, Sentenza n. 41674 del 06/07/2004, Ryan e altri, Rv. 229893); o, viceversa, a fronte della contestazione di una condotta commissiva sia stata ritenuta in sentenza una condotta anche come colposamente omissiva (Sez. 4, Sentenza n. 27389 del 08/03/2018, Siani, Rv. 273588; Sez. 4, Sentenza n. 36778 del 03/12/2020, Celli, Rv. 280084); analogamente il principio di correlazione tra accusa e sentenza non si ritiene violato allorquando venga contestata una ipotesi di colpa specifica e, all'esito del giudizio, si ravvisi in capo all'imputato un'ipotesi di colpa generica (Sez. 4, Sentenza n. 53455 del 15/11/2018, Galdino de Lima c. Castellano, Rv. 274500).
6.7. E' poi appena il caso di ricordare che l'emersione del fatto diverso può avvenire in appello: come chiarito, infatti, dalle Sezioni Unite Paglini, la mancanza di correlazione tra fatto enunciato nell'ordinanza di rinvio a giudizio, nella richiesta o nel decreto di citazione e fatto risultato nel dibattimento deve essere rilevata dal giudice di appello sia quando tale diversità non sia stata rilevata dal giudice di primo grado, sia quando la diversità del fatto risulti nel giudizio di appello. In questa ipotesi in cui il giudice di appello accerta che la regiudicanda è diversa da quella dedotta in accusa la Corte di merito deve annullare la sentenza di primo grado e ordinare la trasmissione degli atti al pubblico ministero con sentenza (Sez. U, Sentenza n. 2477 del 06/12/1991, dep. 1992, Paglini, Rv. 189397).
7. Fatte queste premesse di ordine generale, può affrontarsi il thema decidendum oggetto del presente giudizio.
Nel caso di che trattasi, a fronte dell'imputazione formulata nei confronti degli imputati - secondo la quale la d.ssa A. avrebbe eseguito erroneamente le manovre e le spremiture "alla Crede'" provocando l'inversione uterina e l'emorragia; ed inoltre il Dott. P. e la d.ssa A., pur di fronte all'inversione uterina, avrebbero posto in essere manovre incongrue, omettendo di procedere all'intervento chirurgico di isterectomia, così aggravando la perdita ematica la sentenza di primo grado ha di fatto ravvisato profili di colpa essenzialmente nell'ultima parte degli addebiti mossi alla A. e al P., ossia nel ritardo di costoro nel dare corso all'operazione di isterectomia pur a fronte dell'acquisita consapevolezza dell'intervenuta inversione uterina.
Alla luce della perizia nominata nel corso del giudizio di appello, ed all'esito dell'esame in aula dei periti, la sentenza impugnata individua i profili di ritenuta responsabilità colposa nel fatto che, in primo luogo, la riscontrata atonia dell'utero della paziente (per la quale, durante il parto, si era reputato necessario adoperare la c.d. ventosa di compiacenza) avrebbe imposto da parte della d.ssa A. un management attivo del secondamento (ossia dell'espulsione della placenta), nonché la somministrazione di farmaci volti a favorire l'espulsione della placenta con modalità e quantitativi ben diversi da quelli somministrati, risultati inidonei, e l'esecuzione di manovre di Crede' tardive e improprie, sebbene la placenta non si fosse ancora staccata, ciò che è stato ritenuto come un fattore di rischio per l'inversione uterina. Quest'ultima, che la d.ssa A. sospettava fin dalle 11.30, è stata confermata dal Dott. P. alle 11.40; ma, nonostante ciò, i tentativi di riposizionamento dell'utero venivano eseguiti in modo tardivo e le manovre volte a completare il secondamento venivano poste in essere mentre l'utero era ancora in condizioni di inversione, così favorendo l'aggravarsi dell'emorragia.
7.1. Orbene, restando alle conclusioni dei periti accolte dalla Corte territoriale, mentre gli addebiti precedenti appaiono almeno in parte diversi rispetto a quelli oggetto dell'imputazione, l'addebito riferito all'ultimo segmento delle condotte poste in essere dalla d.ssa A. e dal Dott. P. presenta caratteri di più netta affinità e di specificazione, se non proprio di sovrapposizione, rispetto all'ultima parte delle condotte colpose oggetto di imputazione ai due sanitari, nonché - a ben vedere - a quelle riconosciute dal Tribunale all'esito dell'istruttoria dibattimentale.
In definitiva, le condotte colpose attribuite dalla Corte di merito (in particolare alla d.ssa A.) in concomitanza con il parto e subito dopo la rilevazione dell'inversione uterina non integrano un "fatto diverso" in senso tecnico, ma risultano piuttosto integrare una sorta di "premessa in fatto" - certamente rilevante sul piano concausale, ma altrettanto certamente non estranea alla serie causale successiva che ne è seguita - delle condizioni della paziente manifestatesi in seguito (dalle quali scaturiva una copiosa emorragia, risultata fatale), riguardo alle quali è stata invero riconosciuta non solo dalla Corte di merito, ma anche dal Tribunale (e, di fatto, dall'editto imputativo), la responsabilità della d.ssa A. e del Dott. P. in relazione al ritardo con il quale si è proceduto all'isterectomia.
7.2. Può concludersi che gli elementi additivi ravvisati dalla Corte distrettuale all'esito della perizia, che si collocano "a monte" della successiva sequenza (e ne costituiscono in qualche misura una concausa originaria), non assorbono certamente, nel giudizio della Corte di merito, le responsabilità dei dottori A. e P., ma ne spiegano meglio la gravità in relazione ai passaggi successivi. Non può parlarsi, in questo senso, di una diversità del fatto nei suoi elementi essenziali. E, soprattutto, non può ritenersi che l'emersione della puntuale ricostruzione e valutazione dei fatti sia avvenuta "a sorpresa" e senza la possibilità, per gli imputati, di difendersi. Ciò è puntualmente e correttamente spiegato dalla Corte di merito a pagina 40 della sentenza impugnata, dalla quale emerge con evidenza che le difformità nei fatti accertati concernono aspetti non essenziali, restando oggettivamente impregiudicato il nucleo centrale delle accuse, costituito dalle inadeguatezze nelle manovre finalizzate all'espulsione della placenta e dai ritardi nell'esecuzione dell'isterectomia in presenza di un'emorragia massiva culminata in uno shock emorragico, vera causa del decesso della paziente; peraltro, rispetto agli accertamenti condotti dai periti (su richiesta di tutte le parti, precisa la Corte torinese), la lettura della narrativa del processo d'appello chiarisce che non vi è stata alcuna menomazione dell'esercizio del diritto di difesa: da pag. 23 in poi la Corte territoriale, dopo avere osservato che "nessuno dei C.T. ha depositato elaborati contenenti valutazioni critiche della relazione dei Periti", ha illustrato i chiarimenti forniti dai Periti nel contraddittorio delle parti. Chiarimenti che, fra l'altro, hanno comportato una importante precisazione (vds. pag. 38 sentenza impugnata) circa l'affermazione riportata nella perizia - di una supposta imprevedibilità del sopraggiungere della CID (coagulopatia intravascolare disseminata), verificatasi alle 12.10: rispetto a tale affermazione, in sede di confronto con le parti, è stata esclusa nella specie la natura di evento imprevisto e imprevedibile, trattandosi al contrario di esito caratterizzato da sicura prevedibilità, in quanto conseguito al protrarsi e all'aggravamento dell'emorragia non adeguatamente trattata, nonché al rilascio in circolo di sostanze di tipo tromboplastinico, rilasciate dalla placenta non tempestivamente e correttamente rimossa; tant'e' che, come osservato dalla Corte territoriale, anche il C.T. del Responsabile civile, Dott. V., ha riconosciuto che "l'emorragia che complica un parto è a rischio di aggravarsi a sua volta con una CID" (ibidem, pag. 38).
E', poi, appena il caso di chiarire che sono prive di pregio e di fondamento le lagnanze dei ricorrenti a proposito di una supposta "assoluzione" degli imputati, in primo grado, da una parte degli addebiti sui quali la Corte di merito è invece tornata nel ricostruire le condotte degli imputati qualificate come colpose: come correttamente osservato dalla Corte di merito (pag. 41), l'imputazione riguarda un unico addebito, sia pure dipendente da una concatenazione di condotte e da una pluralità di fattori, come tale non frazionabile in diverse porzioni autonomamente suscettibili di decisione assolutoria o di condanna. Vale qui il principio in base al quale, ai fini dell'individuazione dell'ambito di cognizione attribuito al giudice di secondo grado dall'art. 597 c.p.p., comma 1, per punto della decisione deve ritenersi quella statuizione della sentenza che può essere considerata in modo autonomo, non anche le argomentazioni esposte in motivazione, che riguardano il momento logico e non già quello decisionale del procedimento. Ne deriva che, in ordine alla parte della sentenza suscettibile di autonoma valutazione che riguarda una specifica questione decisa in primo grado, il giudice dell'impugnazione può pervenire allo stesso risultato cui è pervenuto il primo giudice anche sulla base di considerazioni e argomenti diversi da quelli considerati dal primo giudice o alla luce di dati di fatto non valutati in primo grado, senza, con ciò, violare il principio dell'effetto parzialmente devolutivo dell'impugnazione (Sez. 5, Sentenza n. 40981 del 15/05/2014, Giumelli, Rv. 261366).
7.3. E', infine, appena il caso di osservare che, sui temi della causalità delle condotte colpose attribuite alla A. e al P. in relazione all'evento letale, in assenza di decorsi causali alternativi, sono assolutamente corrette le considerazioni della Corte di merito alle pagine 38-39; e che, del pari, risultano affatto conducenti le considerazioni svolte a proposito del grado della colpa, giudicato grave, ancorché non rilevante in presenza di violazioni di tutte le linee guida oggetto del confronto fra esperti.
8. E' di tutta evidenza che le considerazioni che precedono renderebbero ulteriormente inammissibile il ricorso degli eredi P. anche laddove esso è volto a ottenere una pronunzia di proscioglimento nel merito: pronunzia che, alla luce delle osservazioni che precedono, sarebbe comunque esclusa, difettando - a tacer d'altro - il requisito dell'evidenza di cui al capoverso dell'art. 129 c.p.p. (cfr. Sez. U, Sentenza n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274).
9. Per quanto precede, i ricorsi della d.ssa A.M. e del Responsabile civile Azienda Sanitaria Locale ASL (OMISSIS) vanno rigettati e i detti ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali, nonché, in solido, alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dalle parti civili C.C., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla minore C.A., F.M., B.L. e B.E., liquidate come da dispositivo.
E' invece inammissibile il ricorso degli eredi P., da parte dei quali come pacificamente chiarito dalla giurisprudenza di legittimità - nulla è dovuto a titolo di spese o di sanzione in favore della Cassa delle Ammende, né di rifusione delle spese alle parti civili, stante la carenza di legittimazione e l'insussistenza in radice del rapporto giuridico processuale (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 5607 del 17/01/2012, Salerno e altri, Rv. 252097; Sez. 5, Sentenza n. 15282 del 08/11/2016, dep. 2017, Arena e altri, Rv. 269695; Sez. 3, Sentenza n. 23935 del 25/03/2021, F., Rv. 281850).
Va disposto, ratione materiae, l'oscuramento dei dati personali.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi presentati dagli eredi di P.G. e cioè da M.M., P.A.C. e P.E..
Rigetta i ricorsi di A.M. e del responsabile civile Azienda Sanitaria Locale (OMISSIS) che condanna al pagamento delle spese processuali nonché, in solido, alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dalle parti civili C.C., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla minore C.A., F.M., B.L. e B.E., che liquida in Euro 4.800,00, oltre accessori come per legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2022.
Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2022