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Incandidabilità: La sentenza di patteggiamento è equiparabile a quella di condanna.

In tema di elettorato passivo, i "requisiti negativi" ostativi al mantenimento della carica di consigliere regionale, idonei a determinare "ipso jure" la decadenza ai sensi del D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 8, comma 6, per difetto della non indegnità morale del soggetto desunto da condanne irrevocabili per determinati reati, sono i medesimi che determinano l'incandidabilità di cui all'art. 7 dello stesso D.Lgs., in base all'interpretazione letterale, sistematica e finalistica della relativa disciplina, e pertanto alla sentenza penale di condanna è equiparata quella di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p., come previsto dall'art. 15 dello stesso D.Lgs.

Cassazione civile sez. I, 30/03/2022, (ud. 24/02/2022, dep. 30/03/2022), n.10224

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 917/2021 pubblicata l'8-6-2021 la Corte d'appello di Palermo ha rigettato l'appello proposto da G.G. diretto ad ottenere, in riforma dell'ordinanza del Tribunale di Palermo del 16-10-2020, la disapplicazione e/o l'annullamento della dichiarazione di decadenza di diritto dell'appellante dalla carica di deputato regionale emessa dal Presidente dell'Assemblea Regionale Siciliana nella seduta del (OMISSIS). La Corte territoriale, per quanto ancora di interesse, ha affermato che: i) era manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 15, come affermato dal Tribunale con argomenti ai quali era fatto espresso rinvio, non essendo, peraltro, ravvisabile alcun contrasto della norma con la presunzione di innocenza prevista dall'art. 27 Cost., poiché la decadenza è ricollegabile non ad un giudizio di responsabilità penale ma al mero fatto dell'applicazione di una pena, non lesiva del suddetto principio costituzionale; l'equivalenza stabilita dal citato art. 15, tra sentenza penale di condanna e sentenza resa ai sensi degli artt. 444 c.p.c. e segg., è giustificata dall'esigenza che la carica politica sia ricoperta da soggetti moralmente specchiati, idonei a garantire il buon andamento e l'imparzialità delle pubbliche scelte, né era dato dubitare della legittimità costituzionale di tale equivalenza in relazione agli artt. 2,3 e 51 Cost., neanche con riferimento alle previgenti normative riguardanti l'incandidabilità alle cariche politiche e la decadenza dalle medesime; iii) la previsione del principio di equivalenza tra sentenza penale di condanna e sentenza di patteggiamento rientra nell'ambito della competenza statale legislativa, concernendo la materia "ordine pubblico e sicurezza", considerato, inoltre, il disposto del D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 14, che stabilisce l'applicabilità, anche nelle regioni a statuto speciale, delle disposizioni di legge ivi contenute; iv) al caso di specie erano pertanto applicabili del D.Lgs. n. 235 del 2012, artt. 7,8 e 15, ed era inammissibile la deduzione difensiva circa il mancato carattere di definitività della sentenza di patteggiamento in forza della quale era stata dichiarata la decadenza di diritto del deputato regionale perché prospettata per la prima volta in sede di discussione orale della causa, dopo la scadenza dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. e, dunque, tardivamente.


2. Avverso questa sentenza G.G. propone ricorso, affidato a tre motivi, nei confronti dell'Assemblea Regionale Siciliana e del Presidente dell'Assemblea Regionale Siciliana e della Commissione per la verifica dei poteri dell'Assemblea Regionale Siciliana, che resistono con controricorso.


3. Il ricorso è stato fissato per l'adunanza in Camera di consiglio ai sensi dell'art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis.1 c.p.c..


RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente denuncia: i) con il primo motivo la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 648 e 625 bis c.p.p., l'omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e la nullità della sentenza, per avere la Corte d'appello ritenuto tardivamente prospettata per la prima volta, dopo la scadenza dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., la questione relativa alla definitività e al passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., senza considerare che non si tratta di eccezione processuale rientrante nella disponibilità della parte, ma di un ineludibile presupposto normativo di applicabilità delle norme sulla decadenza, in base a quanto previsto dal D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 8, u.c., rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, e nella specie il passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento non era avvenuto in data 11-11-2019 (data dell'ordinanza emessa da questa Corte di inammissibilità del ricorso), atteso che l'odierno ricorrente aveva introdotto il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p. e l'art. 648 c.p.p., prevede l'irrevocabilità delle sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione, ossia, ad avviso del ricorrente, allo scadere del termine di 180 giorni ordinariamente previsto per la proposizione del ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., analogamente a quanto previsto dall'art. 324 c.p.c.;


con il secondo motivo la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 235 del 2012, artt. 7,8 e 9, sotto il profilo della inapplicabilità nella Regione Sicilia di quelle norme della c.d. Legge Severino che assume essere un segmento di materia riservata all'Autonomia regionale (disciplina delle modalità di verifica e sanzioni incidenti sullo elettorato passivo), in rapporto all'art. 4 dello Statuto Regionale Speciale, che è norma di rilievo costituzionale, ed al suo Regolamento interno (art. 40), per avere la Corte d'Appello fatto diretta applicazione del dettato della L. n. 241 del 1990, art. 21-octies, comma 2, quale norma di salvaguardia che impedisce la declaratoria di illegittimità di un atto amministrativo avente carattere "vincolato", ed invece la censura involgeva profili di incompetenza e addirittura di vera e propria attribuzione, con le inerenti questioni di illegittimità costituzionale già espressamente sollevate e che assume il ricorrente di riproporre, con riferimento alla denunciata invasione dei compiti e delle attribuzioni proprie della Commissione Regionale di Verifica dei Poteri, ossia di prerogative di rilievo costituzionale derivanti dallo Statuto autonomistico e dal Regolamento interno della Regione Siciliana, non potendo altresì qualificarsi come vincolato il provvedimento di cui trattasi; iii) con il terzo motivo la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 235 del 2012, artt. 7,8 e 9, sotto il profilo della inammissibile totale equiparazione delle sentenze di patteggiamento alle sentenze di condanna emesse all'esito di giudizio abbreviato o di dibattimento ai fini dell'applicazione del citato art. 8, nonché la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 15, comma 1, che disciplina mere e limitate ipotesi di "incandidabilità", e non già di decadenza, rimarcando la diversità, ancorata a presupposti fattuali e giuridici del tutto autonomi, delle due fattispecie legali, di stretta interpretazione, sicché nel caso in esame, ad avviso del ricorrente, è assolutamente carente il requisito della effettiva preesistenza di una sentenza di condanna definitiva a carico dell'odierno ricorrente, in disparte il rilievo, che ribadisce, secondo cui la sentenza di patteggiamento del GUP di Roma del 18.02.2019, nel caso concreto, non era effettivamente passata in giudicato allorquando era stata adottata la pronuncia di decadenza.


2. Il primo motivo è infondato, pur dovendo emendarsi in diritto la motivazione della sentenza impugnata.


2.1. La censura pone una prima questione che deve risolversi in senso contrario a quanto affermato nella sentenza impugnata, con la quale si è ritenuto che l'allegazione del passaggio in giudicato della sentenza penale, da cui discende la decadenza dalla carica di consigliere regionale del ricorrente, rientri nel novero delle questioni di fatto e giuridiche soggette alla disponibilità delle parti e che, quindi, debba essere tempestivamente introdotta in giudizio e non sia rilevabile d'ufficio.


Ritiene, invece, il Collegio che si tratti di un presupposto normativo che il giudice è tenuto ad accertare d'ufficio, configurandosi la sentenza penale passata in giudicato come un "dato storico", che non ammette reinterpretazione di fatti o ulteriori indagini, per effetto del quale opera ipso jure la causa inabilitante.


Secondo la costante giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte, la materia del contenzioso elettorale amministrativo è devoluta al giudice ordinario, ove concernente l'ineleggibilità, la decadenza e l'incompatibilità, in quanto volta alla tutela del diritto soggettivo perfetto inerente all'elettorato passivo e l'accertamento della suddetta posizione soggettiva dell'interessato si svolge attraverso la verifica della rispondenza a legge della decadenza dalla carica indicata nell'atto amministrativo (cfr. tra le tante Cass. S.U. 11131/2015).


Indubitabilmente, tuttavia, detta verifica risponde, anche e soprattutto, ad esigenze pubblicistiche di rilievo costituzionale, essendo, in particolare, volta ad assicurare la salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, e ciò giustifica, anzi rende necessario l'esercizio di indagine ufficiosa sull'irrevocabilità della sentenza penale di condanna, che è un "passaggio" indispensabile dell'accertamento demandato al giudice ordinario.


Va, pertanto, espresso il seguente principio di diritto:"In tema di contenzioso elettorale amministrativo, la verifica della rispondenza a legge della decadenza dalla carica dell'interessato indicata nell'atto amministrativo, pur riguardando la tutela del diritto soggettivo perfetto inerente all'elettorato passivo, involge esigenze pubblicistiche di rilievo costituzionale, volte ad assicurare la salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, sì da rendere necessario l'esercizio di indagine ufficiosa sulla sussistenza dei presupposti normativi previsti dal D.Lgs. n. 235 del 2012, artt. 7 e 8 e, in particolare, sull'irrevocabilità della sentenza penale di condanna per le ipotesi di reato da cui discenda "ipso jure" la decadenza dalla carica".


2.1.1. Alla stregua delle suesposte considerazioni, occorre correggere in diritto la motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 384 c.p.c., u.c., il cui dispositivo non cambia, per quanto di seguito si illustrerà, non essendo necessario, al riguardo, un accertamento fattuale, precluso a questa Corte, ma la risoluzione della questione giuridica dell'irrevocabilità ex art. 648 c.p.p., della sentenza penale di cassazione, sotto il secondo profilo denunciato dal ricorrente con il primo mezzo.


2.2. Passando, dunque, all'esame della seconda questione oggetto di doglianza, ad avviso del ricorrente, l'irrevocabilità della sentenza penale emessa nei suoi confronti decorre dalla data di scadenza del termine per proporre ricorso straordinario ex art. 645 bis c.p.p., e, pertanto, il passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento non era ancora avvenuto in data 11-11-2019 (data della pronuncia emessa da questa Corte di inammissibilità del ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento), e dunque, in tesi, quando era stato emesso il provvedimento di decadenza, atteso che egli aveva proposto ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., dichiarato inammissibile dalla Seconda sezione Penale di questa Corte con sentenza n. 22485/2020.


La censura è priva di fondamento, atteso che lo stesso art. 648 c.p.p., richiamato dal ricorrente, al comma 2, prevede espressamente che "Se vi è stato ricorso per cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l'ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso".


Il ricorso straordinario per errore di fatto ai sensi dell'art. 625 bis c.p.p., è mezzo di impugnazione, per l'appunto, straordinario, che del tutto eccezionalmente può incidere su una sentenza penale della cassazione passata in giudicato, cioè irrevocabile come previsto dal 648 c.p.p. (cfr. Corte Cost. n. 21 del 1982, citata anche dai controricorrenti, e Corte Cost. n. 113/2011 in tema di sentenze CEDU). L'art. 648 c.p.p., detta una disciplina coerente con la finalità di certezza dei rapporti giuridici, di particolare rilevanza nell'ordinario procedimento penale, con i consequenziali precisi limiti di intangibilità del giudicato penale nel senso precisato dal Giudice delle leggi, non potendo la pronunzia della Corte di Cassazione, per il ruolo di supremo giudice di legittimità ad essa affidato dalla stessa Costituzione (art. 111 Cost., comma 2), soffrire ulteriore sindacato ad opera di un giudice diverso (Corte Cost. n. 21 del 1982 citata).


Il parallelismo, prospettato in ricorso, tra giudicato penale e giudicato civile, secondo quanto previsto dall'art. 324 c.p.c., non solo è del tutto erroneo in ragione della strutturale e funzionale diversità dei rispettivi procedimenti che li originano, ma non è neppure conducente nel senso indicato dal ricorrente, perché la norma si riferisce all'intangibilità per mancata proposizione delle impugnazioni ordinarie, e tale non è quella di cui all'art. 625 bis c.p.p..


3. Anche il secondo motivo è infondato.


Il Giudice delle leggi ha già affermato che non vi è alcuna invasione, ad opera delle norme della cd. legge Severino, dell'ambito legislativo della Regione Sicilia, in quanto si tratta di norme di ordine pubblico e di sicurezza di competenza del legislatore nazionale (Corte Cost. n. 35/2011; n. 118/2013; 276/2016), nonché di un accertamento vincolato in ordine al quale non è possibile l'esercizio di alcuna discrezionalità da parte dell'assemblea regionale. Le questioni di illegittimità costituzionale che il ricorrente ripropone sono già state ritenute manifestamente infondate dalla Corte Costituzionale e da questa Corte (Cass. 8618/2017 e Corte Cost. 276/2016).


In particolare, circa la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 7, comma 1 e art. 8, comma 1, per contrasto della previsione con gli artt. 3,51,76 e 77 Cost., con riguardo alla disparità di trattamento, in tema di elettorato passivo, tra componenti del Parlamento nazionale e componenti dell'Assemblea regionale siciliana, a cui si applicano le disposizioni del citato D.Lgs. n. 235 del 2012, stante il disposto dell'art. 14 stesso decreto, la Corte costituzionale (sent. 276 del 2016 citata), dopo avere richiamato la propria sentenza n. 407 del 1992, ha ribadito che non appare configurabile, sotto il profilo della disparità di trattamento, un raffronto tra la posizione dei titolari di cariche elettive nelle regioni e negli enti locali e quella dei membri del Parlamento e del Governo, essendo evidente il diverso livello istituzionale e funzionale degli organi costituzionali ora citati, con la conseguenza che non può ritenersi irragionevole la scelta operata dal legislatore di dettare le norme impugnate con esclusivo riferimento ai titolari di cariche elettive non nazionali.


4. Parimenti infondato è il terzo motivo.


L'assunto argomentativo del ricorrente, secondo il quale l'equiparazione della sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., alla sentenza penale di condanna sarebbe prevista solo per le ipotesi di incandidabilità, ai sensi del disposto del D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 15, e non anche per quelle di decadenza dalla carica, si pone in contrasto sia con il tenore letterale dell'art. 7 dello stesso decreto, sia con la ratio della complessiva disciplina sul tema.


4.1. Sotto il primo profilo, che vi sia imprescindibile collegamento, nell'individuazione dei cd. "requisiti negativi", tra incandidabilità e decadenza risulta inequivocabilmente dall'incipit dell'art. 7 (Non possono essere candidati alle elezioni regionali, e non possono comunque ricoprire le cariche di presidente della giunta regionale, assessore e consigliere regionale, amministratore e componente degli organi comunque denominati delle unità sanitarie locali...).


Tanto emerge inequivocabilmente anche dal tenore della specifica norma sulla decadenza (art. 8, comma 6: "Chi ricopre una delle cariche indicate all'art. 7, comma 1, decade da essa di diritto dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna o dalla data in cui diviene definitivo il provvedimento che applica la misura di prevenzione"), che, per l'appunto, non solo è inserita, sistematicamente, nello stesso articolo che disciplina anche la sospensione (art. 8), così venendo normata la progressione tra l'iniziale provvedimento di natura in senso lato "cautelare" e quello definitivo, ma che neppure individua le ipotesi di reato da cui discende la decadenza, e ciò proprio in quanto sono le medesime previste per l'incandidabilità, stante l'espresso richiamo dell'art. 7.


4.2. La suddetta interpretazione è l'unica rispondente alla finalità perseguita dal legislatore.


Il D.Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 (come la L. n. 55 del 1990, nel testo modificato dalla L. n. 16 del 1992), ha operato un bilanciamento non irragionevole tra il diritto all'elettorato passivo ed i primari interessi pubblici, collegando l'incandidabilità e la decadenza al difetto del requisito della non indegnità morale del soggetto, desunto dalla assenza di condanne irrevocabili per determinati reati. Il legislatore ha ragionevolmente esercitato la discrezionalità riconosciutagli dall'art. 51 Cost., ossia il potere di fissare i requisiti in base ai quali i cittadini possono accedere alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza: posto che sono state selezionate le ipotesi di reato e si è richiesta la sentenza definitiva, dunque si sono prefissati parametri quantitativi e qualitativi coerenti ed idonei a lumeggiare le fattispecie.


L'inquadramento della incandidabilità è stato già operato dal giudice delle leggi (Corte Cost. 19 novembre 2015, n. 236; e v. già Corte Cost. 31 marzo 1998, n. 114, con riguardo all'analoga fattispecie delle cause di incandidabilità previste, in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali, dalla L. 18 gennaio 1992, n. 16; 24 giugno 1993, n. 288; 29 ottobre 1992, n. 407; v. pure Corte Cost. 15 febbraio 2002, n. 25 e 15 maggio 2001, n. 132), dalla massima magistratura amministrativa (Cons. Stato 6 febbraio 2013, n. 695; 29 ottobre 2013, n. 5222) e da questa stessa Corte (Cass. 27 settembre 2012, n. 16493; 27 maggio 2008, n. 13831; ord. 6 aprile 2005, n. 321; 26 novembre 1998, n. 12014; 8 novembre 1994, n. 9263), secondo cui tale istituto non costituisce una sanzione, né penale e né amministrativa, o un effetto penale della condanna, ma conseguenza del venir meno di un requisito soggettivo per l'accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento. Pronunciando sulla L. n. 55 del 1990, citato art. 15, la Corte costituzionale, in primo luogo, ha invero avuto modo di rilevare in più occasioni come le misure ivi previste - ossia l'incandidabilità alle cariche elettive e la decadenza di diritto dalle medesime a seguito di condanna definitiva per determinati reati (che viene qui specificamente in rilievo), nonché la sospensione automatica in caso di condanna non definitiva - siano dirette "ad assicurare la salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche allo scopo di fronteggiare una situazione di grave emergenza nazionale..." (cfr. Cass. 12113/2016).


La Corte Cost. 19 novembre 2015, n. 236 - nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 11, comma 1, lett. a), sollevata in riferimento agli artt. 2,4,51 e 97 Cost. - ha ribadito che "non appare, invero, affatto irragionevole che questa operi con effetto immediato anche in danno di chi sia stato legittimamente eletto prima della sua entrata in vigore: costituisce, infatti, frutto di una scelta discrezionale del legislatore certamente non irrazionale l'aver attribuito all'elemento della condanna irrevocabile per determinati gravi delitti una rilevanza così intensa, sul piano del giudizio di indegnità morale del soggetto, da esigere, al fine del miglior perseguimento delle richiamate finalità di rilievo costituzionale della legge in esame, l'incidenza negativa della disciplina medesima anche sul mantenimento delle cariche elettive in corso al momento della sua entrata in vigore".


Resta da aggiungere che, secondo l'orientamento di questa Corte, espresso in fattispecie, invero, diversa dalla presente e qui condiviso per l'affermazione di principi valevoli anche per quanto ora di interesse, la causa di incandidabilità e di decadenza è giustificata da un giudizio di indegnità morale a ricoprire le cariche elettive indicate dalla legge, da parte di soggetti colpiti da alcune condanne penali irrevocabili, sicché essa si configura come un "requisito negativo" ai fini della capacità di partecipare alla competizione elettorale e di mantenere la carica. Il D.Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, considera la condanna penale irrevocabile quale mero presupposto oggettivo e "requisito negativo" ai fini della capacità di partecipare alla competizione elettorale e di mantenere la carica (così Cass. 12113/2016 in ipotesi di decadenza di un Sindaco di un Comune siciliano a seguito di condanna penale per il reato di tentato abuso d'ufficio commesso prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 235 del 2021).


4.3. Alla stregua di tali principi, non può che trarsi la necessaria conclusione che la sentenza cd. di patteggiamento (nel caso di specie per originaria imputazione di corruzione in atti giudiziari, di seguito rubricata in traffico di influenze illecite ex art. 346 bis c.p.), in quanto equiparata alla sentenza di condanna per espresso disposto dell'art. 15 del citato D.Lgs., si configuri come "requisito negativo" anche ai fini di mantenere la carica, e non solo ai fini della candidabilità. Un diverso opinamento nel senso prospettato dal ricorrente, oltre che non rispondente alla ratio legis per quanto si è detto, sarebbe oltremodo illogico, poiché, paradossalmente, il "requisito negativo" si porrebbe come ostativo solo alla partecipazione alla competizione elettorale, che è senz'altro un minus rispetto al mantenimento della carica da parte del candidato eletto.


Va, pertanto, espresso il seguente principio di diritto: "In tema di elettorato passivo, i "requisiti negativi" ostativi al mantenimento della carica di consigliere regionale, idonei a determinare "ipso jure" la decadenza ai sensi del D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 8, comma 6, per difetto della non indegnità morale del soggetto desunto da condanne irrevocabili per determinati reati, sono i medesimi che determinano l'incandidabilità di cui all'art. 7 dello stesso D.Lgs., in base all'interpretazione letterale, sistematica e finalistica della relativa disciplina, e pertanto alla sentenza penale di condanna è equiparata quella di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p., come previsto dall'art. 15 dello stesso D.Lgs.".


5. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.


Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).


Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.


PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 4.000,00, oltre spese prenotate a debito.


Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.


Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.


Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2022.


Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2022

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